Accresci in noi la fede: la richiesta dei discepoli a Gesù al centro dell’omelia del vescovo Michele

Una cattedrale gremita per l’ingresso del nuovo pastore della diocesi di Treviso, mons. Michele Tomasi. Circa 1500 le persone riunite in cattedrale e fuori, in piazza Duomo, a seguire la celebrazione sul maxischermo allestito per l’occasione. Tra loro anche una folta rappresentanza di sacerdoti e fedeli della diocesi di Bolzano – Bressanone. E molte sono state le persone che si sono collegate da casa a Telechiara e ai siti web diocesani (anche i nostri missionari dall’estero).

Un’omelia centrata sul Vangelo della XXVII domenica del Tempo ordinario, quella di mons.Tomasi, sviluppata attorno alla richiesta dei discepoli a Gesù: “Accresci in noi la fede”. Ecco il testo dell’omelia:

Cari confratelli nell’episcopato,

nel presbiterato

nel diaconato,

cari fratelli e sorelle religiosi,

cari sorelle e fratelli in Cristo,

“Accresci in noi la fede”: una bella domanda, questa dei discepoli: una domanda che ci appare questa volta sì, adeguata, giusta. Essi non chiedono, infatti, posti di privilegio o di potere, non pretendono questa volta di stare alla destra e alla sinistra del Signore. Essi gli chiedono che dia loro un “di più” di fede.

Partono da una mancanza, dalla sana consapevolezza che pur avendo seguito Gesù, pur avendo concretamente affidato a lui la loro stessa vita, ancora non sono in grado di fare il salto. Quel salto che permetta loro di dire di credere sul serio. Questa mancanza non è un bisogno da soddisfare, un vuoto da colmare con qualche atto, con un progetto, con un qualche “fare” pastorale o sociale, così che si possa poi acquietare con una risposta definita, seppur transitoria: una volta che sono sfamato sono a posto almeno sino alla prossima volta che quel vuoto si ripresenta, prepotente; una volta che la mia vita è organizzata con cura, sono a posto, tranquillo, realizzato, almeno fino alla prossima crisi.

No, questa mancanza è in una dimensione differente, si presenta ai discepoli come qualcosa di nuovo, di inedito, di sinora mai visto ma ormai chiaramente percepito: essa segnala loro qualcosa che in modo leggero, discreto, sottile tocca il profondo della loro vita: essi vivono un momento che attraverso questa domanda così improvvisa, così netta e secca rivela loro che il gioco si è fatto serio ed è decisivo: dobbiamo fare un salto di qualità, Signore, perché quanto ci chiedi ci spaventa e ci mette in grande difficoltà ma al tempo stesso non cessa di attirarci, di affascinarci.

Ecco che il Vangelo – nostra vera ed autentica guida – ci propone di fare questa richiesta: “Accresci in noi la fede”.

La domanda è posta con urgenza dai discepoli, perché poco prima il Signore li aveva richiamati con una certa durezza alla decisione radicale di non dare scandalo ai piccoli, a preferire il bene di questi anche alla propria stessa vita e poi, in rapida successione, all’esigenza altrettanto e forse ancor più radicale della continua, perseverante disponibilità al perdono, anche quando il fratello dovesse senza sosta insistere nel farci del male.

È come se ai discepoli fosse chiara la distanza tra l’esigenza evangelica e la percezione della capacità da parte loro di realizzarla: “accresci in noi la fede”, facci credere che sia possibile vivere come vuoi tu, anche se, sotto sotto, siamo convinti che non sia proprio possibile. Vorremmo crederti, Signore, ma come si fa? Non puoi pretendere davvero ciò che ci chiedi, e forse non puoi darci davvero ciò che desideriamo: davvero il bene dell’altro è così importante da diventare norma delle mie scelte e della mia vita intera? Davvero la vita dell’altro è così importante che devo sempre di nuovo permettergli nuovi spazi di esistenza, di vita?

In definitiva: posso credere in un “di più” di vita, in una profondità di senso che abbia il sapore non soltanto della soddisfazione, ma piuttosto della gioia, dell’amore?

Che cos’altro avrebbero allora potuto chiedere i discepoli?

Che altro dovremmo a nostra volta poter chiedere noi?

Non certo perché tutte le altre cose che ci viene in mente di chiedere non siano importanti – la salute, il lavoro, il bene dei figli, la consolazione per i genitori anziani, un poco di tranquillità, la serenità con i vicini. Anzi tutte queste e tante altre preoccupazioni che muovono le persone ogni giorno, che le spingono – che ci spingono – a lavorare, ad impegnarci, in una parola, a vivere, sono proprio il luogo in cui il Signore viene a visitarci e viene ad abitare con noi.

Io stesso vorrei chiedere al Signore – e glielo chiedo, ve lo confesso, in questo momento così particolare della mia vita – di poter svolgere il compito che mi viene affidato di essere vostro Vescovo con saggezza, con salda mitezza, con mite fermezza, di poter essere una buona guida per una chiesa viva e fedele qual è questa Chiesa di Treviso; voglio chiedere e chiedo di poter superare i miei limiti, o almeno di poterli rendere quanto più innocui possibile, e di poter impiegare al meglio i doni che il Signore mi ha fatto e continua a farmi.

Ma per quanto anche questa richiesta – come tante altre – sia buona, sia giusta, sia forse anche doverosa, essa non è ancora giunta al cuore di ciò che sento decisivo ed irrinunciabile, di ciò che questo momento mi chiede, ci chiede.

Fammi credere di più; fammi cogliere con la mente e con il cuore che in ogni preoccupazione, in ogni responsabilità, in ogni momento per quanto banale della vita mia e dei fratelli e delle sorelle ci sei tu che mi ami, che ci ami, tu che per ciascuno e per tutti hai donato tutto te stesso, la tua stessa vita. Fammi credere che tu sei il Signore della mia vita, della Chiesa, della storia. “Mio Signore, mio Dio”.

A questa domanda che sapientemente hai fatto affiorare, tu dai una risposta ancora più provocatoria: “Se aveste fede quanto un granello di senape”… basta così poco, dunque? E sono così debole nella fede, così povero? Quel “di più” pesa quanto un granello di senape, un nulla – del resto anche il tuo passaggio è “voce di un tenue silenzio”. Ed io non posseggo nemmeno quello. Ed è bene così, è proprio bene che non lo possegga, perché ce lo hai tu, e tu me lo doni. Perché sei tu la forza, tu il perdono, tu porti su di te il peso dello scandalo, dello scacco, del fallimento, della morte. Tu sei colui che sta in mezzo a noi come colui che serve, tu ti sei cinto il grembiule e ti sei chinato a lavare i piedi degli apostoli, nell’ultima cena. Tu sei il servo che inutile – non però uno buono a nulla, ma uno che non insegue un utile, che è gratuità pura – tu sei il servo della nostra Chiesa, della nostra gente, della nostra vita, della vita di ogni uomo.

Io, da solo, non sono neppure capace di essere un servo inutile, di essere solo e semplicemente un servo.

È tutto “inutile” allora?

No, tu ti sveli e ti riveli nella tua tenue Parola; ti lasci consumare da noi nell’Eucaristia; ti fai splendore nel volto dei piccoli e dei poveri, ti mostri all’opera nella comunità, dai luce di orientamento ai cammini della storia.

E noi? Riesci a catturarci ancora? O siamo ormai troppo pieni di noi stessi?

Ci doni oggi quel “di più” di fede?

Lascia che esso irrompa nella nostra vita, vieni a cercarci, stanaci dalle nostre paure, fa‘ che siamo “rapiti dalla tua bellezza” (“Domini pulchritudine correpti”: permettimi padre Agostino di affidarmi ora al tuo motto episcopale);

fa’, Signore, che amati riamiamo, semplicemente, cercando come sola ricompensa il tuo amore.

Signore, “Accresci in noi la fede”.