Author: acecchin

L’omelia del Vescovo nella messa di Pasqua: “Se Cristo è davvero risorto, allora possiamo sperare”

Omelia del vescovo Michele Tomasi nella messa del giorno di Pasqua – cattedrale di Treviso – 17 aprile 2022:

Cari fratelli e sorelle in Cristo: «Buona Pasqua»!

Anche oggi siamo riuniti insieme per celebrare la vittoria sulla morte, la Risurrezione di Cristo, il Vangelo di una tomba vuota che sconvolge tutto ciò che siamo pronti ad accogliere e a credere.

È alla durezza e all’inevitabilità apparente del male, infatti, che nel concreto siamo abituati e disposti a credere. Vediamo il male, ne percepiamo la forza brutale, l’inesorabile presenza nella nostra vita.

Soprattutto in questi nostri tempi inquieti e dolorosi, non reggono più le sicurezze che ci eravamo costruiti, la fede ingenua in una bontà conquistata dall’umanità, nell’impossibilità del ritorno, anche nella nostra pacifica Europa, alla barbarie della guerra. Invece, ecco di nuovo irrompere la ragione irragionevole della forza bruta che porta all’arbitrio del più forte, la lotta di tutti contro tutti, e ancora risuonare la triste profezia come unica parola di apparente saggezza: «homo homini lupus»: l’uomo è lupo per l’altro uomo.

È doloroso, ma non ci sorprende: la guerra in Europa è solo l’ultima di una serie che continua ad insanguinare ogni parte del mondo; la violenza e la sopraffazione sono all’ordine del giorno a tantissimi livelli, la precarietà e la fragilità della vita ci sono ormai quotidianamente presenti attraverso le vicende della pandemia, la diseguaglianza sembra essere inevitabile corollario di ogni attività umana.

Niente di nuovo sotto il sole, dunque.

Ma ecco, ancora una volta, si ripresenta l’annuncio di una tomba vuota. Anche i tentativi di darsi una spiegazione plausibile, come il trafugamento del corpo, una prima teoria del complotto. E ci sono corse avanti e indietro tra il sepolcro ed il cenacolo, annunci non creduti, testimonianze ritenute poco attendibili, sguardi che non riescono a rendersi conto del senso di quanto stanno vedendo.

Ma quel sepolcro vuoto è lì.

Nulla nella storia sino ad ora è riuscito a cancellarne la presenza.

Il dato di fatto di un sepolcro vuoto.

E la testimonianza delle donne, degli apostoli, dei testimoni. Sono stati costretti ad accogliere l’impossibile, a credere l’incredibile e a darne testimonianza, con le parole e con il cambiamento di vita.

I testimoni hanno rimesso in gioco la loro vita non per un’invenzione, non per una teoria o una riflessione teologica, non perché incapaci di accettare la durezza della vita. Essi testimoniano perché hanno incontrato il Risorto:

E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (At 10, 39-41).

Noi siamo qui ora perché siamo in una tradizione ininterrotta di persone che hanno creduto a questo annuncio, e che vivendo a partire da esso hanno incontrato a loro volta il Signore: nella Parola, nei Sacramenti, nella comunità, nei poveri, nei piccoli e nei fragili, nelle vicende della vita.

Il nostro augurio di “buona Pasqua” diventa, allora, l’atto più forte e rivoluzionario che possiamo compiere, se è animato e mosso dalla fede nella vittoria di Cristo sul male e sulla morte.

Se Cristo è davvero risorto, allora possiamo sperare.

Allora c’è una forza di vita nella nostra esistenza, allora la speranza non è un’illusione. Allora ci si può impegnare a favore del bene, allora vince la vita. Anche se non sembra. Anche al cospetto di chi pensa di costruire, in un delirio di onnipotenza, la vita su lutti e macerie: anche se la violenza sembra forte, essa è sconfitta da se stessa, perché genera solamente atti di morte.

Il vero realismo diventa allora la fede nella vita, il perdono reciproco, la fraternità vissuta come dono e benedizione, l’impegno per prendersi cura gli uni degli altri, la fatica di rimanere fedeli nell’amore, il continuo sforzo di disarmare i cuori, le menti, le coscienze. La fiducia nella costruzione di un’Europa autentica casa di pace.

L’uomo non rimane allora nemico, non più avversario, ma amico, compagno di strada, fratello e sorella da accogliere e da amare.

«Homo homini amicus, frater”.

Conversione dello sguardo, della mente, del cuore, della vita.

Grazie alla forza donata da Dio.

Grazie alla Risurrezione di Cristo.

Grazie alla presenza qui, tra noi, del vivente, amante della vita.

 


Celebrata in cattedrale la solenne Veglia pasquale presieduta dal Vescovo

“Il dono della Pasqua è accettare il dono di Dio: diventare ogni giorno «nuovi», più luminosi e belli, più vivi”

“La proclamazione della Pasqua, che celebriamo in questa santa Notte, nella «madre di tutte le veglie» è davvero il centro di tutta la nostra fede, il fondamento di ogni nostra speranza, ed è il cuore che genera e sostanzia ogni nostro atto di amore”:  nella solenne Veglia pasquale in cattedrale, questa sera, il Vescovo ha iniziato così l’omelia, dopo la benedizione del fuoco e la preparazione del cero pasquale, all’esterno, e dopo la Liturgia della Parola che ha ripercorso e fatto rivivere le tappe della storia della salvezza. Nel corso della celebrazione undici catecumeni hanno ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana.

“Tutta la vita della Chiesa è un continuo celebrare la Pasqua, meditarne il senso e il significato, approfondirne il valore – ha ricordato mons. Tomasi -. Tutta l’esistenza della Chiesa e dei discepoli di Cristo è una celebrazione della vita nuova ricevuta in Cristo, risorto e vivo in mezzo a noi”.

E l’ingresso in questa vita nuova ci è donato nel Battesimo, nel quale siamo immersi in Lui, “nel dono di amore che è la sua morte, e siamo resi capaci di una “novità di vita”. Proclamare oggi la nostra fede nella Risurrezione di Cristo – ha sottolineato il Vescovo -, significa tornare alle sorgenti della vita nuova che ci è stata donata. Il cammino della nostra vita sarà allora un continuo ritorno a questa origine, disponibilità quotidiana a rinunciare al potere della morte, del sospetto, della paura”.

“Cari fratelli e sorelle in Cristo, e soprattutto voi, cari catecumeni che ora sarete inseriti in Cristo mediante il battesimo, questo è il dono della Pasqua: accettare il dono di Dio, diventare ogni giorno «nuovi», più luminosi e belli, più vivi. La continua conversione a ciò che il Risorto ci dona nel battesimo è quanto possiamo fare di più potente per il bene del mondo: credere in Dio, cercare la nostra guida soltanto in Cristo e rimanere saldi con Lui contro il male, la morte, la guerra, la violenza. Condividere la vita vera da Figli di Dio, fratelli e sorelle, tutti”.

 

L’omelia integrale del Vescovo:

Veglia pasquale – 16 aprile 2022

Cattedrale di Treviso

La proclamazione della Pasqua, che celebriamo in questa santa Notte, nella «madre di tutte le veglie» è davvero il centro di tutta la nostra fede, il fondamento di ogni nostra speranza, ed è il cuore che genera e sostanzia ogni nostro atto di amore.

Tutta la vita della Chiesa è un continuo celebrare la Pasqua, meditarne il senso e il significato, approfondirne il valore. Tutta l’esistenza della Chiesa e dei discepoli di Cristo è una celebrazione della vita nuova ricevuta in Cristo, risorto e vivo in mezzo a noi.

L’ingresso in questa vita ci è donato nel battesimo, esso “sancisce l’appartenenza dei cristiani a Cristo vivente” (Pino Stancari). Dobbiamo continuare a meditarlo e poi dobbiamo davvero continuare a crederlo: Cristo risorto, il principio della vita nuova è il Cristo crocifisso e morto sulla croce.

Dobbiamo ricordarlo sempre, perché come ci insegna San Paolo – e ci viene annunciato ogni anno, in questa liturgia della notte – se siamo battezzati in Gesù “siamo battezzati nella sua morte”, “siamo stati sepolti insieme a lui nella morte”.

Nel battesimo è morto ciò che siamo in quanto figli di Adamo, ciò che siamo come eredi di Caino, inizia una vita nuova, in Cristo.

Muore tutto ciò che ci fa mettere noi stessi al centro dell’esistenza, muore la nostra pretesa di essere noi stessi il dio della nostra esistenza, muore l’uomo vecchio che cerca con affanno di vincere la morte con le sue sole forze. E così non fa altro che continuare a generare morte.

E come la morte non ha più potere su Cristo Gesù, risorto dai morti, così anche noi, se lasciamo inchiodare l’uomo vecchio sulla croce, saremo “viventi per Dio, in Cristo Gesù”.

Non veniamo liberati dalla nostra condizione mortale, né dalla sofferenza, e nemmeno dalle prove. Dovremo essere sottoposti a prove, subiremo sofferenze, dovremo morire.  Ma non saremo più schiavi, non saremo più guidati dalla paura della morte. Il peccato non ci domina, la mortalità non ci contiene: siamo grandi della stessa vita di Dio, che ci è donata, completamente donata e mai costruita da noi stessi o conquistata dalla volontà o dalla forza.

La nostra vita è tutta racchiusa in questa tensione: tra l’essere morti, liberati dal potere della morte e ancora mortali, liberi dal male perché inseriti realmente in Cristo e ancora in un cammino che fa rivivere l’uomo vecchio, che vive cioè ancora il sospetto primordiale di Adamo verso Dio e la scelta omicida di Caino verso il fratello.

Ma il dono di Dio è irrevocabile: nel battesimo siamo immersi in Lui, nel dono di amore che è la sua morte, e siamo resi capaci di una “novità di vita”.

Proclamare oggi la nostra fede nella Risurrezione di Cristo, significa tornare alle sorgenti della vita nuova che ci è stata donata.

Il cammino della nostra vita sarà allora un continuo ritorno a questa origine, disponibilità quotidiana a rinunciare al potere della morte, del sospetto, della paura.

Ascoltiamo un padre della Chiesa a questo proposito:  “Non pensare che il rinnovamento della vita, che si dice avvenuto una sola volta, sia sufficiente; ma continuamente ogni giorno bisogna fare nuova, se si può dire, la stessa novità. Come infatti l’uomo vecchio continua ad invecchiare e di giorno in giorno si fa più senescente, così anche questo nuovo continua a rinnovarsi e non c’è mai un tempo in cui il suo rinnovamento non si accresca. Camminiamo in novità di vita, mostrandoci ogni giorno nuovi a colui che ci risuscitò con Cristo, e per così dire più belli, cercando in Cristo come in uno specchio la bellezza del nostro volto e, contemplandovi la gloria del Signore, trasformiamoci nella sua stessa immagine, poiché Cristo risorgendo dai morti dalle bassezze terrene è asceso alla gloria della maestà del Padre” (Origene).

Cari fratelli e sorelle in Cristo, e soprattutto voi, cari catecumeni che ora sarete inseriti in Cristo mediante il battesimo, questo è il dono della Pasqua: accettare il dono di Dio, diventare ogni giorno «nuovi», più luminosi e belli, più vivi.

La continua conversione a ciò che il Risorto ci dona nel battesimo è quanto possiamo fare di più potente per il bene del mondo: credere in Dio, cercare la nostra guida soltanto in Cristo e rimanere saldi con Lui contro il male, la morte, la guerra, la violenza.

Condividere la vita vera da Figli di Dio, fratelli e sorelle, tutti.

 

 


L’amore che fa rinascere: undici battezzati giovani e adulti nella veglia pasquale

Rinascere a vita nuova! E’ questa l’esperienza che l’incontro con l’amore del Signore permette di fare a chi si lascia avvolgere da Lui, che è misericordia. La vita riprende vigore, le ferite sono guarite e sanate, la libertà si apre alla carità. Questa esperienza profondamente umana, e per ciò profondamente spirituale, è donata in maniera speciale durante la celebrazione dei sacramenti, nella Chiesa. Sono segni e parole che significano la Grazia di Dio, che la rendono presente nel qui ed ora della storia degli uomini. L’amore del Cristo, già consegnato una volta per tutte nella sua passione, morte, risurrezione, è celebrato, vissuto, reso presente e accolto ogni volta che la Chiesa invoca il Padre, nel Figlio, per mezzo dello Spirito Santo.
Cuore dell’incontro sacramentale con la Grazia è la Veglia pasquale, durante la quale la Chiesa, comunità dei salvati, celebra il mistero dell’amore del Signore. In cattedrale a Treviso, in questa Pasqua, undici fratelli e sorelle provenienti dalle comunità della nostra diocesi, vivranno questa esperienza di rinnovamento e saranno incorporati in Cristo, diventando cristiani. Undici storie diverse, 11 cammini differenti che scelgono liberamente di consentire allo Spirito di soffiare nelle loro vite, di dare vigore alle loro scelte, per rinascere a vita nuova. Il loro cammino di riscoperta della bellezza della fede in Cristo Gesù è iniziato molto tempo addietro. Hanno condiviso con le loro comunità l’entusiasmo della scoperta, la fatica della fedeltà, l’inquietudine della ricerca. Sono stati accompagnati dalla preghiera di tanti fratelli e sorelle che li hanno continuamente affidati al Signore.
All’inizio della Quaresima, sono stati eletti per celebrare i Sacramenti dell’Iniziazione cristiana. Nel tempo della purificazione hanno celebrato gli scrutini e hanno precisato e purificato il loro cuore e i loro desideri. Durante la Veglia pasquale, in comunione con tutta la Chiesa, celebrano il Battesimo, la Confermazione e si accostano per la prima volta alla Comunione eucaristica. Se da un lato la loro iniziazione è compiuta, perché entrano a pieno titolo nella comunità dei salvati, dall’altro la loro vita cristiana inizia. Rinnovati dalla Grazia, sono chiamati a rientrare nel quotidiano delle proprie vite facendo fiorire attorno a loro il giardino di Pasqua.
Ogni battezzato e ogni comunità, nel momento in cui lascia operare lo Spirito del Risorto e collabora alla sua azione, rinasce a vita nuova e diventa capace di trasformare il mondo, sotto il segno della Carità di Cristo. Che questa Pasqua sia per tutta la Chiesa diocesana l’occasione per rinascere come Chiesa del Risorto. Celebrando il cuore della carità di Dio, le nostre comunità possano rinascere a vita nuova per essere capaci di continuare nel mondo a far fiorire la vita e la carità. L’itinerario catecumenale di questi neofiti sia per tutta la Diocesi ispirazione a riprendere con vigore la sua missione e a ricentrare la sua azione sull’unica cosa necessaria: far fiorire il Vangelo tra le pieghe della storia.

(don Marco Piovesan)


Dai Vescovi italiani

“Quando venne la pienezza del tempo (Gal 4,4)” – Messaggio per la Quaresima

“Un invito a una triplice conversione, urgente e importante in questa fase della storia, in particolare per le Chiese che si trovano in Italia: conversione all’ascolto, alla realtà e alla spiritualità”. È il Messaggio dei Vescovi italiani per la Quaresima, che comincia riferendosi alla prima fase del Cammino sinodale, dedicata all’ascolto. Ascolto, innanzitutto, della voce dei bambini, che in questo tempo di pandemia “colpiscono con la loro efficace spontaneità: ‘Non mi ricordo cosa c’era prima del Covid’;  “Arrivano al cuore anche le parole degli adolescenti”, si legge nel messaggio: ‘Sto perdendo gli anni più belli della mia vita’. Le voci degli esperti, poi, “sollecitano alla fiducia nei confronti della scienza, pur rilevando quanto sia fallibile e perfettibile”: “Siamo raggiunti ancora dal grido dei sanitari, che chiedono di essere aiutati con comportamenti responsabili”. Infine – si legge nel messaggio – “risuonano le parole di alcuni parroci, insieme con i loro catechisti e collaboratori pastorali, che vedono diminuite il numero delle attività e la partecipazione del popolo, preoccupati di non riuscire a tornare ai livelli di prima, ma nello stesso tempo consapevoli che non si deve semplicemente sognare un ritorno alla cosiddetta normalità”. “Ascoltare in profondità tutte queste voci anzitutto fa bene alla Chiesa stessa”, la sottolineatura della Cei: “Sentiamo il bisogno di imparare ad ascoltare in modo empatico, interpellati in prima persona ogni volta che un fratello si apre con noi”. L’ascolto, infatti, “trasforma dunque anzitutto chi ascolta, scongiurando il rischio della supponenza e dell’autoreferenzialità”: “Una Chiesa che ascolta è una Chiesa sensibile anche al soffio dello Spirito. Ascolto della Parola di Dio e ascolto dei fratelli e delle sorelle vanno di pari passo. L’ascolto degli ultimi, poi, è nella Chiesa particolarmente prezioso, poiché ripropone lo stile di Gesù, che prestava ascolto ai piccoli, agli ammalati, alle donne, ai peccatori, ai poveri, agli esclusi”.

“L’ancoraggio alla realtà storica caratterizza dunque la fede cristiana”. “Non cediamo alla tentazione di un passato idealizzato o di un’attesa del futuro dal davanzale della finestra”, l’invito: “È invece urgente l’obbedienza al presente, senza lasciarsi vincere dalla paura che paralizza, dai rimpianti o dalle illusioni. L’atteggiamento del cristiano è quello della perseveranza: Questa perseveranza è il comportamento quotidiano del cristiano che sostiene il peso della storia, personale e comunitaria”. “Nei primi mesi della pandemia abbiamo assistito a un sussulto di umanità, che ha favorito la carità e la fraternità”, si ricorda nel messaggio: “Poi questo slancio iniziale è andato via via scemando, cedendo il passo alla stanchezza, alla sfiducia, al fatalismo, alla chiusura in sé stessi, alla colpevolizzazione dell’altro e al disimpegno”. “Ma la fede non è una bacchetta magica”, avvertono i vescovi: “Quando le soluzioni ai problemi richiedono percorsi lunghi, serve pazienza, la pazienza cristiana, che rifugge da scorciatoie semplicistiche e consente di restare saldi nell’impegno per il bene di tutti e non per un vantaggio egoistico o di parte”. “Come comunità cristiana, oltre che come singoli credenti, dobbiamo riappropriarci del tempo presente con pazienza e restando aderenti alla realtà”, la proposta: “Sentiamo quindi urgente il compito ecclesiale di educare alla verità, contribuendo a colmare il divario tra realtà e falsa percezione della realtà. In questo ‘scarto’ tra la realtà e la sua percezione si annida il germe dell’ignoranza, della paura e dell’intolleranza. Ma è questa la realtà che ci è data e che siamo chiamati ad amare con perseveranza”. Di qui l’impegno “a documentarsi con serietà e libertà di mente e a sopportare che ci siano problemi che non possono essere risolti in breve tempo e con poco sforzo”.

“Il Cammino sinodale sta facendo maturare nelle Chiese in Italia un modo nuovo di ascoltare la realtà per giudicarla in modo spirituale e produrre scelte più evangeliche”. È quanto si legge nel Messaggio della Cei per la Quaresima, in cui si fa notare che “lo Spirito non aliena dalla storia: mentre radica nel presente, spinge a cambiarlo in meglio”. “Per il cristiano questo non è semplicemente il tempo segnato dalle restrizioni dovute alla pandemia”, scrivono i vescovi: “È invece un tempo dello Spirito, un tempo di pienezza, perché contiene opportunità di amore creativo che in nessun’altra epoca storica si erano ancora presentate”. “Forse non siamo abbastanza liberi di cuore da riconoscere queste opportunità di amore, perché frenati dalla paura o condizionati da aspettative irrealistiche”, l’esame di coscienza: “Mentre lo Spirito, invece, continua a lavorare come sempre”. ”Lo Spirito domanda al credente di considerare ancora oggi la realtà in chiave pasquale, come ha testimoniato Gesù, e non come la vede il mondo”, si ricorda nel messaggio: “Per il discepolo una sconfitta può essere una vittoria, una perdita una conquista. Cominciare a vivere la Pasqua, che ci attende al termine del tempo di Quaresima, significa considerare la storia nell’ottica dell’amore, anche se questo comporta di portare la croce propria e altrui”.

 

Leggi il Messaggio integrale


Messaggio: gli auguri del Vescovo

“Nel Natale di Gesù la radice di ogni nostro rinascere”

Per il Natale 2021, vi auguro di diventare voi stessi un augurio di Natale. Un augurio è l’espressione del desiderio che alla persona a cui viene rivolto accada qualcosa di bello (non voglio nemmeno prendere in considerazione auguri di male…). Ci auguriamo, quindi, semplicemente di passare bene la festa del Natale. È già molto, ci sembra quasi difficile da esprimere in tempi così complicati come i nostri, soprattutto se incontriamo persone che in vario modo vivono la precarietà dell’esistenza a causa della malattia, della solitudine, di qualche difficoltà o crisi familiare, sociale, economica. Sentiamo, a partire dalla nostra fede, che quello che si festeggia è veramente importante, e quindi desideriamo che il contenuto celebrato possa riverberarsi sull’esistenza di chi lo festeggia. A volte ci basterebbe un po’ di serenità e di quiete. Ma no, non basta ancora. Allora desideriamo per gli altri che i loro desideri più cari possano realizzarsi in quel giorno. Auguriamo in fondo che accada qualcosa che scaldi il cuore, che dia luce e calore, che regali alla vita un colore e una musica carichi di affetti, di pace, che aprano al sorriso le persone care, soprattutto quelle più provate dalla vita. Poi ci diciamo subito che la pace e la gioia non possono limitarsi ad un giorno solo.

Qualcuno ne trae la conseguenza di rinunciare del tutto agli auguri.

Andiamo invece avanti. Andiamo in profondità del nostro desiderio di bene, per noi e per gli altri. Andiamo alle radici della possibilità di questo bene: il Signore Dio prende parte alla nostra vita, diventa uno di noi, il bambino Gesù, l’uomo vero. Lui prende le nostre parti. Quelle dello scartato, del debole, del piccolo. Quelle di ciascuno di noi, di tutti. Non ci lascia più da soli, ci sostiene, ci accompagna, ci guida. Si dona. Diventa dono. Abbandonato in croce, abbraccia tutti. Risorto è veramente presente, per sempre, e apre la vita all’eternità. Lui si fa Natale, Lui si fa dono, Lui assume e realizza ogni desiderio. Lui è garanzia, fonte e meta di ogni augurio. Se metto il mio desidero di bene per chi riceve i miei auguri nel cuore del Signore Gesù, Lui è caparra di ogni mio augurio. Ed è Lui che raggiunge l’altro nel mio augurio, che non è più soltanto una formula consueta, ma diventa parola vera, che sgorga dal cuore.

E l’augurio non è più nemmeno soltanto parola, ma respiro dell’anima che mette in moto la mia disponibilità, il mio cuore e le mie mani, la mia fantasia e tutto il mio desiderio per vedere realizzato il tuo desiderio di bene.

E troverò il modo, magari semplice e discreto per farmi presente, veramente persona con te, con tutti, affinché ti possa accadere davvero qualcosa di bello, un’emozione, una luce calda, un sorriso nuovo ed insperato.

 

Nel Natale di Gesù di Nazareth, il Cristo, vero Dio e vero uomo, ci sia la radice di ogni nostro rinascere, ci sia il motivo di ogni sorriso, di ogni aiuto, di ogni gesto piccolo o grande di fraternità, ci sia il desiderio che si realizzi ogni desiderio di bene.

Auguro a noi tutti che possiamo diventare un augurio vero, incarnato.

Buon Natale!


Per la Giornata “pro orantibus” la lettera del Vescovo: “Le sorelle claustrali fanno luce al nostro cammino sulle strade della fede”

Carissimi sacerdoti e diaconi, persone consacrate e fedeli della Diocesi di Treviso,
anche quest’anno, nella memoria liturgica della Presentazione al tempio di Maria Santissima, il 21 novembre, ricordiamo in maniera particolare le religiose che nei monasteri dedicano la loro vita alla preghiera e alla contemplazione: ricorre infatti la “Giornata pro Orantibus”.
Siamo tutti insieme popolo di Dio in cammino e Papa Francesco ci invita ad approfondire la dimensione sinodale della vita della Chiesa. La sinodalità, la scelta di percorrere un cammino comune, non significa fare tutti le stesse cose o essere uniformati, sia pure in un valido modello pastorale o in una forma anche nobile di servizio. La bellezza della Chiesa è costituita dalla varietà multiforme delle forme di vita che essa sa generare, in una risposta fedele, ricca di fantasia e di novità alla chiamata battesimale che tutti innesta in Cristo, fonte della vita. Le sorelle che donano l’esistenza al Signore in una scelta di vita claustrale scelgono di far splendere come lampada il loro amore, che arde in attesa dello Sposo che viene. Esse fanno luce – talvolta in modi misteriosi, ma reali – al nostro cammino sulle strade della fede e vivono in maniera indivisa e radicale il primato dell’amore di Gesù Cristo su ogni altra realtà, per quanto utile e necessaria. Esse sono in cammino con noi nel dono della preghiera di intercessione, nell’adorazione, nella lode nutrita di Parola di Dio. Ci insegnano la fatica, la centralità e la fecondità dell’ascolto della voce di Dio e del prossimo che modella e dà forma a tutta una vita e non si riduce ad un atteggiamento passeggero o facoltativo.
Nella nostra Chiesa diocesana sono presenti due monasteri femminili di vita contemplativa: il Monastero della Visitazione a Treviso (Monache Visitandine) e il Monastero di S. Antonio al Noce a Camposampiero (Monache Clarisse). Sono due luoghi importanti per la vita della nostra Diocesi. Sappiamo di poter affidare a queste nostre sorelle le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce che ci accompagnano, assieme a quelle di tutta la Chiesa universale.
Vorrei chiedere a tutti due attenzioni di reciprocità nei loro confronti: prendiamo anche noi un poco di tempo per pregare per queste nostre care sorelle, per sentirci uniti con loro davanti al Signore della vita; sosteniamole però anche concretamente nelle necessità della loro vita sobria e umile, in particolare nella loro cura per le sorelle più anziane. Ve lo chiedo per loro, il Signore ricompenserà la vostra generosità.

Vi saluto cordialmente e invoco su tutti voi ricche benedizioni.

✠ Michele Tomasi
Vescovo di Treviso

Treviso, 18 novembre 2021

 

 


Il Seminario al centro di una grande alleanza formativa: il Messaggio del Vescovo per la Giornata

In occasione della giornata del Seminario di quest’anno parto da un ringraziamento: grazie a don Giuliano Brugnotto che ha svolto l’incarico di Rettore del Seminario sino a settembre di quest’anno e grazie a don Luca Pizzato che ha accettato di ricoprire da allora in avanti questo importante ruolo. Assieme a loro ringrazio anche gli educatori e – sempre da quest’anno – le educatrici che partecipano all’impegno formativo, senza dimenticare le tante persone che contribuiscono con il loro lavoro alla vita del Seminario, dipendenti e volontari. Per poter essere un Seminario diocesano all’altezza dei tempi serve davvero un grande sforzo corale, fatto di generosità spesso nascoste, ma indispensabili. A tutti, grazie di cuore.

Don Luca ci ha ricordato la settimana scorsa su queste pagine che tutta la comunità cristiana è il soggetto che accompagna i giovani nel cammino di scoperta e di approfondimento della propria vocazione, nell’ascolto cioè di quella voce interiore che è capace di aprire un cammino di vita che porti a dare forma a un desiderio di pienezza e di vita.

La dimensione vocazionale è veramente centrale nella vita dei cristiani. È esperienza che scaturisce direttamente dalla fedeltà di tutta la Chiesa alla Parola di Dio che la interpella quotidianamente, nelle Scritture sante e nella storia degli uomini. Come ha annotato Luigino Bruni: “Potremmo riscrivere l’intera Bibbia come un susseguirsi di storie di persone che hanno seguito una voce che le chiamava”.

Ogni vicenda che veda una scelta e un’accettazione consapevole del proprio compito e del proprio contributo al bene di tutti riceve il suo sigillo e trova il gusto del proprio significato nel comprendersi come una risposta alla chiamata di quella voce interiore.

Il Seminario contribuisce con il proprio specifico servizio, accompagnando ragazzi e giovani in questo comune cammino di ascolto e di discernimento, e poi nel particolare percorso di quei giovani uomini ai quali la voce suggerisce di stabilire un legame con Gesù Cristo nel servizio da presbiteri alla comunità cristiana. In questo caso quella voce – talvolta quasi un sussurro, comunque sufficiente per smuovere una ricerca, a tratti appassionata, e tutta l’intensità di giovanili generosità – richiede e mostra come possibile il dono di tutta la vita, affinché essa sappia mettersi interamente a disposizione della crescita della comunità intera. Il periodo del Seminario deve aiutare ad ascoltare questa voce, a dare un nome al proprio desiderio e ad incarnare nell’oggi della Chiesa un sogno, un’aspirazione.

Il Seminario è una comunità ecclesiale molto particolare, e non può essere altrimenti: tanto tempo deve essere dedicato allo studio e all’acquisizione di competenze necessarie per un presbitero, oggi più che mai. I seminaristi dovranno trovare però anche una comunità che li aiuti ad assimilare i contenuti in modo originale e creativo, per arrivare ad una personale sintesi che illumini e sostenga la loro disponibilità a mettersi in gioco. In un tempo della storia e della Chiesa come il nostro non ci si può affidare a ricette di nessun tipo, servono invece fedeltà creativa e collaborazione matura e adulta.

Per tentare di raggiungere questi obiettivi il Seminario non può rimanere da solo, ma deve essere al centro di una grande alleanza formativa che coinvolga le comunità parrocchiali, gli organismi diocesani e tutti i fedeli in modi differenti sì, ma che non escludano nessuno. Il periodo trascorso in Seminario deve essere di intensa immersione nella vita della Chiesa e nel tempo di oggi – con le sue contraddizioni, le sue ricchezze e potenzialità – in un contesto di cambiamento veloce e profondo. Il Seminario ha bisogno di tempi e di percorsi propri, certamente, ma non può essere isolato dal resto della Chiesa in cammino o dalle vicende del proprio tempo, se vuole contribuire a formare presbiteri che sappiano essere a servizio vitale del popolo di Dio.

Il Seminario accompagna i giovani che si sentono chiamati alla scoperta dei «segni dei tempi» che li motivino a cogliere la presenza viva di Cristo crocifisso e risorto nei Sacramenti, nella Parola letta, studiata e pregata, nella comunità, nelle richieste e negli aneliti del nostro tempo, nel grido dei poveri e del creato. Non potrà svolgere questo compito senza la collaborazione di noi tutti, anche noi in continuo ascolto di quella voce che ci chiama, che ci stimola, che ci invita a vivere oggi l’eccedenza di vita promessa in ogni pagina di Vangelo. Prendendoci cura della formazione dei futuri presbiteri ci prendiamo cura di tutta la Chiesa. Anche questa è una forma, concreta e feconda, di sinodalità.

+Michele, Vescovo    

 


Giornata del Seminario: una comunità che accompagna

Da settembre il nostro vescovo Michele mi ha affidato il compito di rettore del nostro Seminario vescovile. Non nascondo che questa responsabilità un po’ mi intimorisce, tuttavia ciò che mi consola è che l’impegno di accompagnare i giovani e i ragazzi nella ricerca della volontà di Dio è portato avanti da “una comunità educante” che si sforza di camminare insieme.

Tra i verbi che sintetizzano quanto ciascuno può fare per il Seminario e per il servizio di discernimento vocazionale voglio sottolineare l’importanza di scoprire la responsabilità di accompagnare giovani e ragazzi nella ricerca della volontà di Dio per la loro vita. Farsi presente, sostenere e accompagnare l’itinerario verso scelte autentiche è, dunque, per la Chiesa tutta un modo di esercitare la propria funzione materna generando alla libertà dei figli di Dio.

Le scelte
In questo nostro tempo, caratterizzato da un pluralismo sempre più evidente e da una disponibilità di opzioni sempre più ampia, il tema delle scelte si pone con particolare forza e a diversi livelli, soprattutto di fronte a itinerari di vita sempre meno lineari e caratterizzati da grande precarietà. Accompagnare per compiere scelte valide, stabili e ben fondate è, quindi, un servizio di cui si sente diffusamente la necessità e che riguarda l’intera comunità dei credenti, nessuno escluso.
Paola Bignardi, coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, ci ricorda che «una delle sofferenze che portano (i giovani) è un sottile senso di solitudine, perché sentono che la generazione adulta non è disposta o non è preparata a essere un punto di riferimento per loro». Accompagnare personalmente un giovane è rispondere alla chiamata della vita, della propria vita. Esserci è generare alla vita. E’ trasmettere una vita capace di futuro. E’ dunque la comunità nel suo insieme il soggetto primo dell’accompagnamento, proprio perché al suo interno si sviluppa quella trama di relazioni che può sostenere il giovane o il ragazzo nel suo cammino e fornirgli punti di riferimento e di orientamento anche in riferimento al desiderio di diventare prete.

I semi e il terreno buono
Accompagnare non significa guidare i giovani come se questi fossero seguaci passivi, ma camminare al loro fianco, consentendo loro di essere i protagonisti della loro vita. Rispettare la libertà personale fa parte del processo di discernimento di un giovane. Un accompagnatore dovrebbe essere profondamente convinto della capacità di un giovane di prendere parte alla vita della Chiesa e coltivare i semi della fede nei giovani, senza aspettarsi di vedere immediatamente i frutti dell’opera dello Spirito Santo ma continuando ad adoperarsi a preparare un terreno buono cosicché il mistero della vocazione trovi la sua strada.

Nuovi percorsi da forgiare
A questo riguardo siamo chiamati tutti, comunità parrocchiali e Seminario, a essere creativi come gli artigiani forgiando percorsi nuovi e originali, una creatività dell’amore in grado di ridare senso al presente per aprirlo a un futuro migliore. Un impegno necessario al quale siamo chiamati tutti a dedicare nuove energie, senza cedere allo scoraggiamento.

don Luca Pizzato, rettore


La santità è un popolo in cammino che vive la beatitudine della povertà

Era dedicata alla prima delle beatitudini contenute nel Discorso della montagna l’omelia del vescovo Michele nella messa per la solennità di Tutti i Santi, stamattina, 1° novembre, in cattedrale: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Una riflessione sulla pagina del Vangelo secondo Matteo, per cercare “il segreto, il mistero della santità” contenuto proprio in quella definizione di beatitudine.

Difficile credere “che ci siano davvero una beatitudine e una felicità nella povertà, in qualunque forma di povertà, o che ci siano davvero dei poveri che stanno diventando eredi di un regno” ha sottolineato il Vescovo, che ha spiegato chi sono questi poveri e le tante povertà che molte persone vivono: “Coloro che non hanno proprio nulla su cui contare, e per i quali questa mancanza arriva a toccare così tanto la vita quotidiana che giunge fino allo spirito, al cuore, al nerbo dell’esistenza”; coloro che vivono una mancanza, un vuoto, dato magari “da un fallimento dei tuoi progetti, come la mancanza di lavoro o di un lavoro dignitoso, o l’impossibilità di sognare almeno un futuro: povertà di avvenire; c’è poi la povertà della malattia e dell’infermità, della non autosufficienza; la povertà dell’ignoranza o l’aridità di chi non sa che cosa significhi un affetto; la mancanza delle capacità e delle forze a causa dell’età che avanza; la povertà di chi è gravato da una colpa, e non riesce a vedere una possibilità di perdono, di riscatto. Mancanza, vuoto, chiusura di orizzonte. È una condizione faticosa e difficile, dura, che rischia di schiacciarti se la vivi da solo e ti prende l’angoscia o la rabbia, ma che porta in sé anche la possibilità di un nuovo inizio e di un incontro”. Una condizione nella quale ci si scopre creature e si è pronti “ad accogliere quella Parola che viene, che ti stana, che ti raggiunge nel profondo di te, che ti dice che sei beato, che sei felice. Perché contro ogni apparente ragionevolezza e contro ogni probabilità ti ritrovi davvero in un Regno retto da chi ti conosce e ti ama”. Il povero in spirito – ha ricordato il Vescovo – “ha un cuore vuoto che attende soltanto di essere riempito: è l’uomo, è la donna che sono veramente liberi, in ascolto, in attesa, quasi, di essere nuovamente ri-creati, ri-generati a vita nuova. Beati perché sono capaci di accogliere il Signore che viene”.

È la condizione di ogni nuovo inizio, di chi si scopre creatura, figlio ed erede, amato e voluto: “Poter fare questo passaggio è il rischio supremo della vita, il rischio della santità, e per compiere questo passo è necessaria la comunità dei fratelli e delle sorelle. Perché nella povertà, se sei solo rischi davvero di soccombere. Hai bisogno di compagni di strada. Hai bisogno di vedere qualcuno che, nella prova, non ha disperato e ha testimoniato la forza della vera gioia. Ed ecco i santi le cui vite ci illuminano gli occhi e ci riscaldano il cuore. E nella prova hai bisogno di chi si metta a tua disposizione e che si prenda cura di te. Ecco perché i mestieri e le professioni della cura sono così necessari alla vita e alla società, ecco perché è folle non riconoscerlo, e non riconoscere loro il fondamentale posto di rispetto e di onore che spetta loro. Ecco la necessità di persone che sappiano stare assieme agli altri, che non abbiano paura di farsi carico delle fatiche, dei bisogni e delle necessità di chi soffre, e che di fronte al grido di aiuto di tanti fratelli e sorelle non si girino dall’altra parte”. La difesa della vita di ciascuno e di tutti – ha ricordato mons. Tomasi – richiede con forza la santità, la dedizione alla vita per amore. La santità è un popolo in cammino, in cui i poveri della storia trovano accanto a sé altri poveri che per amore si sono spogliati del proprio ingombrante io e, tutti insieme, ascoltano la dolcezza della voce che li dice – tutti – beati. Insieme essi – tutti – pongono le condizioni perché questa Parola diventi esperienza di aiuto dato e ricevuto, di vita a tratti faticosa, ma vissuta insieme e senza paura, nella speranza di un amore sempre più grande, di una vita sempre più intensa”.

Camminare insieme, imparando ad amare tutte le condizioni che ci permettono di accorgerci e di prenderci cura gli uni degli altri, e di vedere il volto di Cristo in ogni volto e in ogni storia, e di sentire la voce del Padre che ci crea e che ci ama: questo è santità.

 

Catechesi: costruire ad alta quota – Due giorni promossi dall’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi 

Costruire in alta quota”. Non si poteva scegliere titolo di miglior auspicio per questo tempo di “ripartenza” (o forse sarebbe meglio dire di “nuovo inizio”) della catechesi. Una suggestione, quella della costruzione “in alto”, che ben rappresenta e abbraccia la “due giorni” organizzata dall’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi e che ha conosciuto la ricchezza di molti stimoli laddove arte, riflessione teologica e biblica nonché momenti celebrativi, si sono succeduti dentro alla feconda dialettica tra il “dentro” del discernimento e il “fuori” dell’apertura al mondo che contraddistingue il cammino di Ninive 2021. In effetti, sebbene pensate come appuntamenti distinti, le due giornate – a cui hanno partecipato complessivamente più di duecento tra catechisti, animatori di pastorale familiare, giovani educatori, gruppi liturgici e missionari – hanno conosciuto una evidente continuità, richiamata da alcune parole chiave: «accettazione», «fragilità », «leggerezza» e «rinnovamento » “Stiamo vivendo un tempo di discernimento nel quale siamo chiamati a dare un nome a ciò che le nostre comunità hanno vissuto e, in qualche modo, stanno ancora vivendo”. Queste le parole di don Alberto Zanetti, direttore dell’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi che hanno aperto la prima giornata. Una tappa in qualche modo storica, che, se si eccettua la ricorrenza del 50° del Biennio catechisti del 22 aprile scorso, ci auguriamo segni un nuovo tempo di incontri “in presenza”. Per cogliere appieno la sfida di questo nuovo inizio che non può prescindere dal considerare l’Iniziazione cristiana un compito che coinvolge l’intera pastorale e, dunque, l’intera comunità cristiana, come segno dell’apertura al dialogo con il mondo, ci si è inizialmente affidati alla testimonianza dell’architetto Simone Gobbo, responsabile della progettazione “in alta quota” del Bivacco Fanton (2667 mt) sulla Forcella Marmarole. Nella sua narrazione sono emersi spunti che, sebbene afferenti alla sua esperienza professionale, sono risultati assai significativi per l’analogia con le sfide pastorali che abbiamo di fronte come, ad esempio, il fatto che tutto sia iniziato nel 2014 partendo da un fallimento: nel 1967 la prima installazione del bivacco non andò a buon fine.

Leggerezza fondata sulla roccia

La nuova progettazione non è nata dal nulla, ma ha preso le mosse dai problemi evidenziati nella prima e ha richiesto la pazienza di ben cinque anni di lavoro a cui se ne sono aggiunti altri due di realizzazione. Il tutto ha preso spunto dalla decisione di accettare le condizioni ambientali (l’inclinazione del sito, il vuoto dell’alta quota, la consapevolezza della fragilità della costruzione rispetto alla potenza del contesto ambientale) senza per questo modificare il paesaggio ma, al contrario, affrontandone le sfide, trovandosi così, nella necessità, a riscrivere i codici sui quali, per anni, si è fondata l’architettura. Da qui la scelta della “sospensione” del bivacco, progettandolo senza un suo diretto contatto col suolo, optando sì per una “leggerezza” ma, comunque, fondata sulla roccia. Tutto ciò è stato possibile perché, come ha puntualizzato Gobbo, “si è «rubato» da altri mondi” (come, ad esempio, l’ingegneria nautica) sollecitando un “lavoro di comunità”. Le provocazioni alla pastorale lanciate dall’esperienza di Gobbo sono state raccolte da don Alberto che ha sottolineato come la crisi che stiamo vivendo debba essere vista sia come uno stimolo per rinnovarci, ma anche occasione per interrogarci su ciò che è stato costruito prima di noi: è tutto da lasciare o c’è qualcosa che, invece, va tenuto e valorizzato? Così come va colta la suggestione dell’alta quota che fa pensare a una evangelizzazione che va ancorata sulla «Roccia» che porta a chiederci: l’Iniziazione cristiana va vista solo in funzione dei sacramenti o va anche intesa come “elevazione” dell’umano? Non di meno va sottovalutato il richiamo all’adattamento all’ambiente che va ritradotto in “ascolto” e “rispetto” delle persone che nel nostro cammino incontriamo. D’altro canto le varie fasi nelle quali il progetto si è articolato ci suggeriscono pazienza e gradualità.

Una comunità missionaria a servizio dell’annuncio

La seconda parte della giornata ha visto l’intervento del Centro Missionario diocesano che, secondo lo spirito di Ninive 2021 e come è già avvenuto il 4 giugno con l’apporto dell’Ufficio Liturgico, ha contribuito ad allargare la sinergia della catechesi con l’intera pastorale. “Una comunità missionaria a servizio dell’annuncio”, il tema sviluppato dai quattro relatori coordinati dal direttore dell’ufficio, don Gianfranco Pegoraro, che ha tracciato un netto parallelismo tra “rinnovamento missionario” e necessità di una consapevolezza della complessità dell’attuale contesto culturale, il che implica pazienza e accoglienza. Richiamandosi ad Evangelii Gaudium 27, don Gianfranco ha sottolineato la necessità di una pastorale che, secondo lo spirito missionario, sappia trasformarsi accettando e ripensando “gli orari”, vale a dire l’ordine e la gerarchia delle cose. Tali aspetti sono stati ulteriormente declinati negli interventi successivi: la necessità di “imparare la lingua”, ossia entrare in empatia con l’altro (don Giovanni Kirschner), la situazione del catecumenato in Ciad (don Mauro Fedato). Poi è stata la volta di Mirella Zanon che ha raccontato la sua esperienza in Russia con la comunità Giovanni XXIII, e, infine, della cooperatrice pastorale Germana Gallina che ha dato conto del suo vissuto in Paraguay con gli animatori laici di comunità. Se il 17 settembre con il suo carico di riflessioni e stimoli è stato il giorno del “dentro”, quello successivo, intriso del linguaggio della “bellezza”, con la celebrazione del Mandato ai catechisti a San Nicolò ha segnato quello del “fuori”.

Tre immagini per questo tempo

Bella, a tratti poetica, è stata la narrazione ad opera di Marco Sartorello di un testo di fr. Enzo Biemmi sulle sfide lanciate alla Chiesa dalla pandemia, nel quale il catecheta si è soffermato su tre immagini: la piazza «vuota» di san Pietro ha richiamato la necessità di imparare a custodire i vuoti per poter permettere al bene di fiorire; la «bassa marea» che, facendo emergere le sporcizie del fondo ci dà modo di fare pulizia e, infine, «la bara del rabbino» legata all’esperienza storica di Jochanan ben Zakkaj che, fingendosi morto, poté uscire in una bara dall’assedio dei romani nel 68 d.C. a Gerusalemme portando con sé la Torah, e diede la possibilità al giudaismo di rifondarsi come popolo della Torah: un popolo senza terra, senza re, senza tempio ma fondato sulla Parola. In questo modo, secondo Biemmi, siamo provocati ad “alleggerirci” cioè a riandare a ciò che, per la fede della Chiesa, è essenziale. Negli 8 laboratori, decentrati in altrettante chiese di Treviso e animati da 16 guide sotto la supervisione di don Antonio Scattolini ed Ester Brunet del progetto pastorale Ar- Theò di Verona, si è riflettuto sulle ferite e sulla possibilità di cura a cui questo tempo ci ha messo di fronte. Il ritorno a San Nicolò ha coinciso con la bella riflessione sulle ferite dell’umanità che, partendo da «Il clown ferito» opera di Georges Rouault, don Antonio ed Ester hanno offerto ai presenti e poi con l’intensa cerimonia del Mandato presieduta da mons. Mario Salviato. Il Vicario episcopale per il Coordinamento della Pastorale,, partendo da Ef 4,1-11 nonché richiamando le parole di papa Francesco, ha invitato i catechisti a rimanere in Colui che è la sorgente della nostra vita e, così, abbattendo qualsiasi muro di separazione, divenire veri artigiani e generatori di comunità. Dimorare in Cristo, ecco cosa significa “Costruire in alta quota”! (Vincenzo Giorgio)

 

(tratto da La Vita del popolo di domenica 26 settembre 2021)