Come cappellano fu destinato a Tombolo, una parrocchia in provincia di Padova posta ai confini della diocesi di Treviso, a pochi chilometri dalla città turrita di Cittadella, la prima comunità della diocesi di Padova.La chiesa parrocchiale, dedicata a S. Andrea apostolo, richiamava fedeli che vivevano in un territorio economicamente e politicamente controllato dal conte Giovanni Cittadella.Gli abitanti di Tombolo erano nella stragrande maggioranza sensali e mercanti di bestiame.Nonostante il relativo benessere comportato dall’iniziativa privata e da un mercato unico o quasi nel suo genere, anche la povertà doveva avere la sua incidenza, se a Tombolo il neo sacerdote e neo cappellano iniziò a donare alla gente più povera il frumento che gli spettava per la funzione sacerdotale svolta: c’erano persone, del tutto bisognose di sostentamento, che sentiva (come testimoniano gli storici) come suoi diretti fratelli, quasi facenti parte di un’unica famiglia, con tutti i crucci economici e giuridici che ciò comportava.Il suo parroco era don Antonio Costantini (Cortina d’Ampezzo, 1821-Tombolo, 1873) che più volte sostituiva per le sue precarie condizioni di salute.Era un parroco che lo seguiva con l’occhio critico del pastore che sentiva la responsabilità di indirizzare alle future responsabilità i sacerdoti a lui affidati: con lui il neosacerdote discuteva e si consultava, acquisendo esperienza pastorale.A Tombolo iniziò a scrivere prediche, discorsi sacri e istruzioni catechistiche (tutto il materiale omiletico da lui composto in vari periodi fu raccolto in seguito in cinque volumi, ora conservati nella Biblioteca del seminario di Treviso).In particolare, sotto la guida “maieutica” di don Costantini, acquisì una certa fama oratoria: con una punta d’ironia veniva denominato “cappellanus de cappellanis” perché, reso celebre nella diocesi di Treviso, era richiesto nelle varie parrocchie, e perfino giunse a recitare nella cattedrale un panegirico sul Beato Enrico da Bolzano, un patrono secondario della città di Treviso.Nella sua prima comunità si dedicava spesso ad opere di carità, trascurandosi nelle vesti e rinunciando anche a necessità vitali.Aveva una sua concezione provvidenziale, fatalistica ed immobilistica della povertà e della ricchezza: nel celebre discorso funebre pronunciato a Cittadella (Padova) in occasione dell’anniversario delle esequie della contessa Elisabetta Viani (24 novembre 1863), enunciò la sua teoria sul rapporto tra povertà e ricchezza, secondo la quale per i poveri non era concepibile un riscatto sociale se non nella misura in cui dovevano permettere ai ricchi di entrare nel Regno dei Cieli.La sua quotidianità era caratterizzata da un’attività frenetica: dormiva poco, era impegnato ed onnipresente, sostituiva il parroco durante gli attacchi della malattia.Era detto “moto perpetuo” per la sua incessante attività in parrocchia e fuori. Sempre a contatto diretto colla popolazione di giorno, alla sera dava lezioni di canto corale e si rendeva disponibile per insegnare a leggere e a scrivere agli analfabeti, molto numerosi a quel tempo.Studiava, alla fine della sua giornata, le opere di San Tommaso, la Sacra Scrittura, il diritto canonico (che a quel tempo era solo un miscuglio di norme giuridiche accumulatosi nei secoli).Si coricava e dormiva per quattro ore.Dei suoi magri guadagni non investiva alcunché: i testimoni ai processi canonici assicurano coralmente l’esercizio costante della carità materiale da parte del loro cappellano: era sicuro che la Provvidenza lo avrebbe sempre sorretto e guidato, e donava quello che aveva, giungendo a contrarre debiti (che riguardavano pure la sua famiglia di Riese), per onorare i quali cominciò a conoscere la via dei Monti di Pietà di Cittadella e di Castelfranco Veneto (Treviso), dove impegnava il suo orologio d’argento. Era ritenuto da tutti un santo ed una perla di prete.Per tutte queste caratteristiche umane, il Costantini profetizzò: “Presto lo vedremo parroco di una delle più importanti parrocchie della diocesi, poi lo vedremo con le calze rosse…e poi…chissà!”.Secondo lo storico mons. Angelo Marchesan, che scrisse una delle più esaurienti biografie del Sarto (che fu anche corretta in bozze di propria mano dal papa o dal suo segretario), non dimenticò mai il periodo di Tombolo, così importante per la sua formazione umana e sacerdotale: “Tombolo fu il vero tirocinio della carriera ecclesiastica di don Giuseppe Sarto, e il Costantini ne fu il vero maestro, ricco di dottrina e d’esperienza”[1].Nel 1867 fu invitato dal suo vescovo, mons. Federico Maria Zinelli (Venezia, 1805-Treviso, 1879), a partecipare ad un concorso per assumere la responsabilità pastorale di una delle cinque parrocchie allora vacanti. Il 21 maggio 1867 fu nominato parroco di Salzano, in provincia di Venezia ma in diocesi di Treviso, la più importante tra le parrocchie messe a concorso.Quando partì da Tombolo venne rimpianto da tutti i tombolani. [1] MARCHESAN A., Pio X nella sua vita e nella sua parola, Benziger e Co. S. A., Einsiedeln, 1904-05, p. 110.
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