Carissime amiche e amici, come state? Come vanno le cose in Italia?
Sono armai passati alcuni mesi dall’ultima “lettre aux amis” (maggio 2021), e in questo periodo di cose ne sono successe tante. Dal 25 giugno al 13 settembre 2021 sono stato in Italia, precisamente a Marcon, per un tempo di riposo e di vacanze anche se, di fatto, è stato un tempo contrassegnato da esami e da controlli medici a causa di un’ernia ombelicale che mi è stata operata il 29 di agosto in Villa Salus a Mestre. Non soddisfatto della cosa, il 9 di agosto sono stato rioperato (sempre a Villa Salus), a causa di un ematoma che si era formato attorno alla ferita del precedente intervento. Anche se non sono stato molti giorni in ospedale, sono rimasto per lo più molto tranquillo a Marcon per permettere alla ferita di rimarginarsi e poter così – con l’accordo dei medici – ritornare in Africa.
Il Tchad sta vivendo un periodo relativamente tranquillo dopo l’assassinio del Presidente della Repubblica Idriss Deby Itno, avvenuto nello scorso mese di aprile. Attualmente il Paese è governato da uno dei suoi figli, il generale Mohamed Deby. Egli presiede una giunta militare, anche se al governo siede un primo ministro civile. Di fatto però è il “generale” che sta dirigendo la nazione, nell’attesa di poter arrivare a delle votazioni democratiche, libere e trasparenti, previste per l’ottobre di quest’anno. Per questo motivo è stato convocato un dialogo inclusivo nazionale che permetta a tutti i cittadini e alle varie realtà civili, sociali, economiche e religiose che compongono la nazione di partecipare attivamente e democraticamente alla realizzazione di questo passaggio. Probabilmente alcune date slitteranno dato che l’inizio di questo dialogo inclusivo annunciato per il 15 febbraio prossimo è stato rinviato, per motivi organizzativi è stato detto, al mese di maggio. Vedremo.
Noi tre stiamo bene. La diocesi di Treviso ha scelto il nuovo giovane sacerdote che verrà a far parte dell’equipe missionaria dei Fidei Donum qui in Tchad. Si tratta di d. Riccardo De Biasi, ordinato prete nel 2020. In questo momento è in Francia per imparare la lingua. Quindi, insh’Allah, in ottobre dovrei rientrare definitivamente in Italia. Vedremo.
Il 2022 sarà per me dunque un anno di cambiamenti, fatto di partenze e di ripartenze.
A questo proposito vorrei condividere con voi proprio alcuni fatti e incontri vissuti l’anno scorso che mi stanno ancora facendo riflettere sul tema dell’andare, del partire, del cercare casa e un lavoro, di avere una sicurezza ed un futuro buono per sé e per i propri cari, per la propria famiglia. Il mio partire e ripartire anche se faticoso e carico di domande e di qualche incertezza, è sempre però un partire con molte sicurezze e con molti punti di appoggio, affettivi, economici e umani. Tanti fratelli e sorelle partono senza avere tutte queste sicurezze. Gli incontri fatti mi hanno aiutano a capire come il mondo sia molto più grande e complesso del mio piccolo e parziale punto di vista, e perciò anche molto più interessante, più bello da una parte e più inquietante e serio dall’altra.
Due di questi incontri sono avvenuti nel nuovo aeroporto di Istanbul, l’altro qui in Tchad.
Tornando in Italia l’anno scorso, nell’attesa del volo per Venezia, in uno degli aeroporti più grandi del pianeta, crocevia cosmopolita dai mille colori e dalle moltissime lingue, stavo parlando con Chiara – una missionaria laica della diocesi di Novara, anche lei in Tchad – quando ad un certo punto una signora seduta accanto a noi ci chiede se eravamo italiani. Era parte di un gruppo di quattro persone che parlavano una lingua a me sconosciuta (che aveva attirato il mio interesse), lei, un signore che pensavo fosse suo marito e poi una giovane donna ed un ragazzo adolescente che immaginavo fossero i loro figli. Ci mettiamo a parlare e così dopo un po’ vengo a sapere che stavano rientrando dalla Georgia dopo aver passato un tempo di vacanza, che lavoravano in Italia già da parecchi anni (in Abruzzo), che il signore era suo fratello e non suo marito, che lei faceva la badante e lui il muratore, con la tristezza di non essere riuscito ad emigrare negli Stati Uniti, già perché in Italia – sosteneva lui – non c’è più futuro. La giovane donna invece, anche lei badante, era invece la madre del ragazzo adolescente il quale per la prima volta accompagnava sua mamma in Italia per un breve tempo di vacanza. Poi lui sarebbe ritornato a vivere con i nonni materni in Georgia e lei invece sarebbe rimasta in Italia, da sola, senza i suoi cari, senza suo figlio.
Nel viaggio di ritorno, sempre a Istanbul, nell’aereo che mi porta in Tchad via Kinshasa, mi siedo accanto ad un signore africano distinto con il quale il dialogo dal semplice saluto iniziale, si fa un po’ più personale. Robert, così si chiama il mio compagno di viaggio, è medico pediatra, è protestante, lavora per l’ONU a Port-au-Prince, la capitale di Haiti, dove segue un programma di aiuto per le donne che stanno partorendo dato che – mi dice – le donne che muoiono nel momento del parto sono ancora molte, troppe. La sua esperienza e la sua competenza mi hanno permesso di conoscere meglio Haiti, paese dell’America Centrale martoriato dal terremoto di alcuni anni fa, da un altro terremoto più recente, dalla complessità della vita politica (anche ad Haiti solo qualche mese fa è stato assassinato il presidente della repubblica) e dalla pericolosità e insicurezza della vita sociale. Robert ha un buon lavoro e, inoltre, ben remunerato. Ogni due mesi torna a casa in RDC (Repubblica Democratica del Congo) per un breve soggiorno di due settimane. Ha un figlio che studia a New York e una figlia che studia a Parigi. Insomma non se la passa male. Ci salutiamo quando l’aereo tocca il suolo, verso le 23.00, ma dormirà nell’hotel dell’aeroporto perché di notte – mi dice – a Kinshasa le strade non sono troppo sicure. Riabbraccerà sua moglie il giorno dopo, quando farà giorno e le strade di Kinshasa non saranno più pericolose.
Finalmente in Tchad. L’ultimo incontro è con Jules, un maestro delle scuole elementari originario di Fianga. E’ un tupuri. Ci incontriamo mentre sto visitando la nostra scuola elementare che sta aprendo i battenti per accogliere gli studenti per il nuovo anno scolastico. E’ il primo di ottobre. Anche Jules sta aspettando di ripartire ma lo farà quando il ministero dell’educazione glielo comunicherà (a lui e a molti altri) attraverso la radio nazionale visto che egli insegna in una scuola dell’estremo nord del Tchad, ai confini con la Libia. Per arrivare lì in fondo infatti deve compiere un viaggio di almeno undici giorni. Un giorno in un piccolo bus per arrivare da Fianga a N’Djamena, la nostra capitale, e altri dieci giorni con un convoglio di camion che deve letteralmente attraversare il deserto del Sahara per portare lui e gli altri al loro luogo di lavoro. Viaggeranno nel rimorchio-cassone del camion, in un numero che è di almeno cento persone. Ogni passeggero deve portare con sé le taniche d’acqua necessarie per la traversata del deserto e poi in gruppi da dieci ogni sera si organizzano per la cena, per il pernottamento alla “belle étoile” e per la colazione al mattino presto, prima che sorga il sole. E’ chiaro che da novembre a giugno – quando la scuola finisce –, nessuno può pensare di attraversare il deserto da solo per ritornare a casa per una qualsiasi motivazione anche perché i convogli di camion vanno organizzati per tempo e bisogna conoscere bene le piste per poterlo fare. Jules, quindi per nove mesi rimarrà lontano dalla sua famiglia e dai suoi cari. Inoltre, ciliegina sulla torta, mentre per il viaggio di andata non deve spendere nessun soldo, per il viaggio di ritorno deve tirar fuori almeno metà del salario di un mese di lavoro, cosa che tutti fanno perché tutti desiderano poter ritornare a casa e riabbracciare la propria famiglia.
E io, di cosa mi posso lamentare?
Le storie di queste persone, i loro racconti, mi sono rimasti impressi ed ogni tanto, pensandoli, li porto nella mia preghiera.
Un abbraccio fraterno a tutti. d. Silvano