> don Claudio Sartor dal Paraguay

Come riportato in TERRE & MISSIONI di marzo, inserto mensile missionario della Vita del Popolo, don Claudio scrive:

“Il 23 di novembre dello scorso anno, ho iniziato la mia nuova vita in Paraguay come fidei donum e per tre mesi ho vissuto nella capitale, Asunción. Non posso definirmi già “missionario”, però sicuramente una cosa già l’ho compresa: il missionario deve essere flessibile, sapersi adattare a tempi e situazioni sempre differenti.

Questo aspetto mi è risultato chiaro sin dall’inizio, quando ho accettato la proposta di partire per l’America Latina. Infatti, avrei dovuto studiare castigliano in Spagna e poi, a febbraio, recarmi direttamente in missione con gli altri missionari che già vivono in Paraguay. Però, causa pandemia, in Spagna non ho potuto recarmi e con il Centro missionario diocesano abbiamo pensato che la cosa migliore fosse partire direttamente per il Paraguay e studiare castigliano nella capitale. Cosicché è stato necessario accelerare i tempi: per i documenti, per trovare un volo, per fare il tampone per il Covid… ecc.

Dopo questa “accelerazione”, sono atterrato ad Asunción, dove mi hanno accolto gli altri confratelli missionari, il vescovo della mia diocesi paraguagia di San Juan Bautista de las misiones, mons. Pedro Collar, e il Vicario generale. Già il fatto di essere accolto in aeroporto da sei persone mi ha fatto comprendere che qui una delle parole chiave per la cultura paraguagia è accoglienza. L’ospite è veramente molto prezioso. Quando arriva un ospite, tutti si prodigano perché non gli manchi nulla, perché si senta a suo agio e, cosa ancora più importante, gli si dedica tempo. Si possono trascorrere ore a dialogare… o comunque a stare assieme, cosa per me europeo, sempre con l’agenda in mano, abbastanza anomala. Questo aspetto dell’ospitalità è ancora più forte se si tratta di un “pa’i” (sacerdote in guaraní, seconda lingua ufficiale del Paraguay). La figura del prete è considerata come una presenza preziosa, la gente vuole bene ai sacerdoti e apprezza molto quando un sacerdote va a visitare una famiglia. Così anch’io ho potuto sperimentare, seppur in poco tempo, questa accoglienza “super”.

Un altro aspetto sorprendente di questi tre mesi in capitale è la quantità di persone che ho potuto conoscere. Per una serie di circostanze favorevoli, ho potuto incontrare molte persone sia ad Asunción che fuori della capitale, dato che ho fatto varie escursioni.

Uno degli aspetti che più mi preoccupava quando sono partito, era la solitudine… pensavo di trascorrere tre mesi rinchiuso in una stanzina a studiare castigliano e parlare con il parroco (che comunque si è rivelato molto gentile e simpatico) e poche altre persone. In verità, quasi sin dall’inizio si è radunato attorno a me un gruppo di giovani della parrocchia appena hanno saputo della mia passione per la pallavolo. Così già la settimana seguente al mio arrivo, quasi ogni sera, dopo la messa della 19.00 ci radunavamo per giocare. Dopo qualche tempo di gioco, abbiamo fatto anche delle belle attività di riflessione e preghiera. Già questo mi pare un piccolo miracolo.

Oltre a questi giovani, ho poi incontrato anche varie persone un po’ più grandi con le quali dialogare, imparare molto della cultura paraguagia, viaggiare. Con una di queste persone la signora Pelusa, ho avuto modo di recarmi a Caaguazú. Qui vivono alcune comunità di nativi, cioè persone che mantengono uno stile di vita secondo la cultura tradizionale: stretto contatto con la natura, vita semplice, lingua che si usava prima della colonizzazione spagnola. Conoscere queste persone è stato molto interessante, anche perché pur nella estrema semplicità della loro vita, o forse proprio grazie a questo, trasmettono una grande gioia.

Altra esperienza che ho potuto vivere è stata quella di visitare le baraccopoli che stanno alla periferia di Asunción (vedi il reportage del precedente inserto “Terre&Missioni”, ndr). Le baraccopoli sono tre e sono dette “bañados” (luogo bagnato, umido) in quanto si trovano al lato del fiume Paraguay, che costeggia Asunción; in alcune occasioni le acque del fiume si alzano e allagano i “barrios”. Qui vivono circa duecentomila persone in condizioni molto difficili. Le case sono per lo più fatte di lamiera e legno e la gente, per vivere, deve svolgere lavori non molto dignitosi come trascorrere il giorno a rovistare nella immondizia per differenziare il materiale (qui non si fa la raccolta differenziata) e rivenderlo.

Ora la mia esperienza in capitale è terminata, con alcuni nuovi amici che di tanto in tanto tornerò a reincontrare, e una nuova sfida mi attende…quella della missione vera e propria nel “campo” (come sono denominate le zone rurali fuori dalla città). Quella fatta nella capitale è stata per certi versi un’esperienza di mediazione tra l’Italia e il “campo”. Ora andrò a vivere al sud del Paraguay, al cofine con l’Argentina. Non ho bene idea di quello che mi aspetta, solo conosco un po’ tramite quello che i miei fratelli e sorelle che sono già lì mi hanno raccontato. Da un lato, questa nuova sfida mi intimorisce come ogni esperienza sconosciuta, dall’altro sento che mi darà la possibilità di crescere nella fede e nell’umanità. Quella che sto vivendo è una esperienza di spoliazione che mi sta permettendo di rivolgermi a Gesù con maggiore intensità.

Sento inoltre di essere accompagnato da moltissime persone sia italiane sia, ora, anche paraguagie che mi fanno sentire costantemente il loro affetto e preghiera.                       don Claudio Sartor

nella foto: don Claudio all’arrivo nelle comunità di Villalbin, Laureles e Yabebyry in diocesi di San Juan Bautista