Ritiro diaconi 23 settembre 2023. Meditazione mons. Stefano Chioatto

Il silenzio di Gesù

  1. Una Parola che viene dal silenzio

Il silenzio è condizione necessaria per vivere l’ascolto, per dare spazio all’accoglienza dell’altro, Questo è tanto più necessario se ci vogliamo mettere in ascolto di Dio, la cui voce si percepisce solo nel “mormorio di una brezza leggera”. Il silenzio, come pure l’ascolto è un atteggiamento apparentemente di passività, ma che in realtà esige, nella relazione con l’altro, la massima attenzione della mente, del corpo, del cuore. L’atteggiamento con cui vogliamo vivere questo metterci in ascolto del Signore, vuole essere quello di chi anzitutto non vuol fargli domande, e neppure di chi vuol comprendere tutto, ma piuttosto quello di un ascolto contemplativo.

Pensando alla figura di Gesù, ci vengono piuttosto in mente le sue parole, i gesti che ha compiuto, la sua passione e la sua morte, ma non certo i suoi silenzi. E tutto questo è assolutamente naturale dal momento che Gesù è la Parola, colui che è venuto a rivelarci il mistero di Dio, il suo progetto sull’umanità, il volto del Padre. abbiamo tutti in mente il prologo del Vangelo di Giovanni, che viene eletto ogni anno nella messa del giorno di Natale. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità».

Giovanni scrive il suo Vangelo verso la fine del primo secolo. Questo termine “Verbo”, che deriva dal latino verbum, che significa parola, e traduzione del greco λόγος, che ha una gamma di significati molto ampia, significa parola, pensiero, discorso, ragione. Questo termine è molto usato dalla filosofia greca, ed era conosciuto ed usato anche dall’ebraismo ellenistico, Nelle comunità della diaspora che si affacciavano al bacino del Mediterraneo, stava ad indicare la Sapienza divina. L’evangelista Giovanni lo applica alla seconda persona della Santissima Trinità, al Figlio. Si tratta di un’interpretazione teologica, che aiuta ad individuarne la sua identità e la sua missione. Questo solenne inizio del quarto Vangelo si rifà al solenne inizio del libro della Genesi, dove in principio Dio crea il mondo attraverso la sua parola: “Dio disse”.

La Parola del Padre è una parola creatrice, ma è anche da sempre Parola generatrice poiché genera la persona del Figlio. Lo possiamo intuire per analogia nella relazione che all’inizio della vita e della crescita abbiamo con i nostri figli: è la relazione che genera l’identità. «Dio non è muto; la sua vita porta dentro di sé per essenza la Parola. Dio vive parlando; e precisamente nel senso che in lui la Parola non presuppone, ma fonda la persona. Dio è persona per rapporto alla Parola. Egli esprime il suo mistero infinito; appunto in questo. Egli esiste come colui che parla rivolto a colui che è parlato – e anche, così certo si può aggiungere – colui che veramente e propriamente ascolta. È la Parola totalmente compiuta, interamente giunta al suo termine. Giunta interamente perché il “tu”, cui essa si rivolge, non è un “io” estraneo, indipendente in sé, ma questo “tu” scaturisce dal parlare stesso. La Parola passa oltre e, per così dire, prende consistenza in se stessa. È discorso e orecchio insieme; discorso sentito e simultaneamente replica. Infatti Giovanni dice pure che la Parola, il Verbo era “presso Dio”, “rivòlto verso di lui”, in atto di ricevere se stesso nell’ascoltare e, in virtù di ciò, in atto d’essere in se stesso» Romano Guardini.

Potremmo dire che parola e silenzio sono due facce della stessa medaglia. Nella liturgia natalizia sono presenti questi due versetti del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte giungeva a metà del suo rapido corso, l’onnipotente tua Parola si lanciò dal cielo, dal tuo trono regale”. «Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio. Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono». In verità le cose grandi avvengono nel silenzio. Non nella rumorosità e nella pomposità degli eventi esterni, ma nella chiarezza della visione interiore, nei moti sommersi della decisione. Quando il cuore è toccato dall’amore, la libertà dello spirito è chiamata ad agire e il suo grembo è fecondato a generare l’opera» Romano Guardini.

  1. Il silenzio negli anni della vita nascosta di Gesù: una silenziosa formazione

La nascita di Gesù avviene nel silenzio; Non è un evento degno di essere consegnato alla storia, tanto è vero che nonostante le diverse coordinate che ci dà Il vangelo di Luca, non siamo in grado di individuarne precisamente la data. Avviene ai margini della vita sociale del tempo, avviene al di fuori dei luoghi della convivenza sociale. E questa marginalità costituirà il tratto caratteristico dei primi trent’anni della vita di Gesù. Intanto ci stupisce la grande sproporzione che c’è tra i circa trent’anni di vita nascosta a Nazareth, e i tre di vita pubblica, per oltre il 90% della sua vita sono passati sotto silenzio.

La vita nella casa di Nazaret scorreva in silenzio, il silenzio di una vita senza notizia, una vita di cui nessuno si accorgeva. Sono molto sottili gli spiragli che il testo biblico apre sulla vita nascosta della famiglia di Nazaret. «La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo. In primo luogo essa ci insegna il silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella agitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a sentire bene le segrete ispirazioni di Dio e i suggerimenti dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto». (S. Paolo VI, Nazareth, 5 gennaio 1964).

C’è un episodio, narratoci da Luca, in cui questo silenzio trentennale si rompe: ed è quando Gesù dodicenne si ferma al tempio mentre i suoi genitori stanno tornando a Nazaret. Questo episodio però ci offre uno spaccato sulla vita di Gesù negli anni di Nazaret. «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore».

Casa del silenzio, la casa di Nazareth, e casa dei perché, come le nostre case. L’ideale non è una casa senza domande, ma la casa che lascia spazio alle domande, a tutte le domande. Il silenzio non è accettazione senza la domanda: Giuseppe si chiede il perché di quella maternità inattesa e sconcertante; i genitori si chiedono il perché della apparente disobbedienza del figlio: “Perché ci hai fatto questo?”; il figlio si chiede il perché della ricerca e dell’affanno dei genitori: “Perché mi cercavate?”. E, di domanda in domanda, ci si metta in cammino verso il mistero, quello della vita, quello di Dio, quello di ciascuno di noi, mistero che non sarà mai svelato una volta per tutte e per sempre. Casa del mistero dell’altro che non ci consente invasioni, ci chiede sosta silenziosa.

«E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»

Il senso di quest’ultima frase sembra chiaro. Vi si afferma che Gesù di Nazaret, come ogni ragazzo, si sviluppava fisicamente e psicologicamente; ma di lui, soprattutto si sottolinea la crescita spirituale: cresceva «nella saggezza e nella grazia». Inoltre, se la sua era una maturazione interiore, «davanti a Dio», essa traspariva però dai suoi atteggiamenti: Gesù cresceva anche «davanti agli uomini». Questa è l’interpretazione che da sempre si dà comunemente del testo. Anzitutto, come ogni altro ragazzo, Gesù cresce in «statura», cioè in lui ha luogo un normale sviluppo psico-fisico. In particolare viene però sottolineata la sua crescita religiosa: egli progrediva in «sapienza» (sophìa) e «grazia» (chàris) sotto gli occhi dei suoi compaesani e soprattutto di Dio.

La sua sensibilità religiosa è eccezionale. Gesù  appena dodicenne è cosciente in qualche modo di avere un rapporto filiale con Dio diverso da quello con Maria e Giuseppe. Così, difatti, egli spiega la sua permanenza nel tempio: «Io devo (dei) occuparmi delle cose del Padre mio» (v. 49). Ciò porta ad ammettere in lui una coscienza implicita della propria identità divina. Ed è proprio questo «devo» che mostra il ‘distacco’, la ‘distanza’, di Gesù dai suoi genitori, lascia intendere, cioè, che egli intravede già che il Padre ha un ‘disegno’ su di lui e che ‘deve’ realizzarlo perché il suo riferimento ultimo è la volontà del Padre. Quale sia la volontà del Padre suo è lui stesso che lo comprende ed è lui stesso che ad essa si conforma liberamente.

Per Gesù questi trent’anni sono anni di silenziosa e continua formazione in famiglia e nel suo paese. Da un lato, condividendo in tutto eccetto il peccato la nostra condizione umana, fa esperienza completa di cosa significa umanità, dall’altro gli diventa sempre più chiara la missione che il Padre gli ha affidato.

L’ambiente vitale di Nazaret. In quel tempo Nazaret era un’irrilevante borgata della Galilea meridionale. Situata fuori mano, a una ventina di chilometri ad ovest del lago di Tiberiade, essa era rimasta estranea all’influsso dei pagani, che invece nelle città della Palestina (tranne Gerusalemme) costituivano la maggioranza della popolazione. La lingua parlata era l’aramaico e, probabilmente, anche un po’ il greco. L’ebraico era invece la lingua dei testi sacri; era usato dai maestri della sinagoga e dai loro discepoli, ma era sconosciuta al popolo.

Gli abitanti di Nazaret vivevano principalmente di agricoltura, che bastava alle loro esigenze, e di artigianato, che spesso obbligava a spostarsi per lavoro qua e là nei paesi vicini: la gente aveva ciò che occorreva per le proprie necessità che, in quel tempo, erano piuttosto limitate.

Le abitazioni consistevano ordinariamente in una grotta scavata nel declivio di una collina, alla quale era addossato sul davanti un rustico che prendeva luce dalla porta d’ingresso e in cui si svolgeva la vita quotidiana. Solo i benestanti avevano case a due piani, più confortevoli.

Ai tempi di Gesù l’arredamento ordinario doveva essere poi molto semplice ed essenziale. Con tutta probabilità la casa di Giuseppe doveva fungere contemporaneamente da ambiente di lavoro, da cucina e da camera da letto. Il mobilio doveva essere quanto mai sobrio: una stuoia, qualche cuscino, un baule, del vasellame di terracotta.

Queste condizioni di vita erano congruenti con il mestiere di carpentiere di Giuseppe, che i Vangeli sembrano attribuire anche a Gesù. Questa attività era tale da assicurare alla sua famiglia risorse economiche sufficienti che, se sottraevano alle strettezze della povertà, non erano però tali da garantire una condizione di benessere.

L’educazione dei ragazzi era affidata al padre. Aiutandolo nel lavoro, rispettando le usanze della famiglia, il ragazzo imparava gradualmente le tradizioni civili e religiose del suo paese. Il padre non solo gli insegnava a lavorare, ma anche l’osservanza dei comandamenti di Dio (cfr. Dt 6,7). In occasione dei riti religiosi, quali la celebrazione del sabato, la preghiera quotidiana, le ricorrenze religiose, era il padre che aveva il compito di spiegarne il significato. A lui incombeva anche il dovere di far partecipare il figlio ai riti e alle preghiere della comunità, fintantoché questi era in grado di intenderne la portata e di compierli.

All’educazione familiare si aggiungeva poi l’istruzione scolastica, impartita nella sinagoga da un incaricato che fungeva da maestro. Questo insegnamento, che durava dal sesto al dodicesimo anno, era imperniato sulla lettura e memorizzazione di brani della torah. C’erano anche studi superiori che solo alcuni affrontavano, seguendo un tirocinio che avviava all’interpretazione della Legge e alla sua applicazione ai casi concreti della vita. Quanto a Gesù, è molto probabile che abbia seguito il primo ciclo di studi, mentre non risulta abbia frequentato quello superiore.

Della maturazione religiosa di Gesù si può pensare che sia avvenuta nella scia del giudaismo di allora. Così, probabilmente la sua giornata era ritmata, come quella di ogni ebreo osservante, dalla preghiera del mattino e della sera, che importava la recita dello shema’ e di alcuni testi biblici. Il sabato, il giorno festivo degli ebrei, avrà scandito il tempo settimanale anche per Gesù di Nazaret. Preparato da preghiere e letture bibliche dalla sera precedente, questo giorno di riposo era consacrato dalla partecipazione alla liturgia sinagogale e dallo studio della torah. Il suo carattere festivo era poi sottolineato da un pasto in famiglia.

Dai Vangeli si riscontrano importanti indicazioni circa la ‘maturità’ religiosa di Gesù, acquisita durante gli anni della vita nascosta. Spesso affiora che egli ha una grande familiarità con Dio. Gesù: spesso si rivolge al Padre, all’Abbà (Mc 14,36), e raccomanda ai discepoli di fare altrettanto. L’insegnamento ripetuto di Gesù sulla preghiera – sulla necessità ed efficacia, sulle modalità – è un chiaro riferimento alla sua esperienza personale. Non raramente egli si esprime usando le parole stesse della Scrittura, il che mostra una lunga consuetudine con essa, che sembra risalire alla preghiera appresa alla scuola di Giuseppe e a quella della sinagoga. Inoltre appare che Gesù amava pregare solo, in luoghi ritirati, durante la notte o prima dell’alba, a tu per tu col Padre.

La ‘preparazione’ religiosa di Gesù e la conoscenza della Scrittura si coglie durante i momenti religiosi pubblici, sia in Giudea sia in Galilea, specie a Nazaret (Mt 13,54) egli spesso partecipa alle funzioni nelle sinagoghe e prende la parola per insegnare. Infatti, in questo contesto ma anche altrove, egli spiega con autorevolezza le Scritture suscitando l’ammirazione dei presenti.

Non raramente, poi, l’interpretazione che egli ne dà va oltre quella abituale sia perché mostra il senso profondo dei testi biblici, sia perché scavalca le prescrizioni tradizionali. Altre volte, invece, Gesù sostiene discussioni animate con gli scribi, dalle quali appare la sua profonda conoscenza delle Scritture e delle tradizioni. Per questo gli è riconosciuta l’autorità di maestro ed è chiamato «maestro» (rabbì).

Il lavoro. Il vangelo di Marco ricorda che Gesù esercitò il mestiere di tektòn (da cui derivano italiano la parola architetto, che letteralmente in greco significa capo dei carpentieri, capocantiere). Il termine greco designa non tanto il lavoro di falegname, ma piuttosto quello di carpentiere. Marco 6,3 ci restituisce, in quel rapido accenno, la concretezza del lavoro che occupò Gesù negli anni della sua vita nascosta. E come dell’occupazione quotidiana di ogni lavoratore umano non si conserva traccia negli annali della grande storia, così è avvenuto di quella di Gesù. Non sapremo mai, se sia più semplicemente rimasto nella piccola cittadina della propria famiglia, senza allontanarsi da essa prima dell’inizio della vita pubblica.

  1. Il silenzio dei 40 giorni di Gesù nel deserto

Tra la vita nascosta di Gesù a Nazareth e il ministero pubblico si collocano i 40 giorni di Gesù nel deserto. anche questo è tempo di silenzio, tempo di digiuno, tempo di tentazione, tempo di preghiera, tempo di discernimento, tempo di decisione sullo stile, sulle modalità, sull’obiettivo del suo ministero. Questo episodio del Vangelo ci richiama un altro brano del libro dell’Esodo. in quale modo compiere la missione affidatagli dal Padre? come salvare l’umanità? La tentazione di Satana: puoi raggiungere i tuoi obiettivi attraverso la via della ricchezza, attraverso la via dell’acquisto del potere, attraverso gesti straordinari. La scelta di Gesù: la strada è quella dell’obbedienza alla volontà del padre, indicata nelle Scritture: è quella dell’amore incondizionato, è quella del servizio all’ultimo posto.

Il riferimento nell’A.T.: «Il Signore parlava [sul monte Sinai] con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico. Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiar pane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole. Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore».

  1. I silenzi di Gesù durante il suo ministero pubblico

4.1    Il silenzio della preghiera

Dopo il silenzio della casa di Nazaret e i 40 giorni del deserto, abbiamo finalmente il tempo di annuncio del Vangelo e di predicazione. Il vangelo di Marco, alle sue prime battute, (Mc 1, 21-39) racconta una giornata di Gesù. Marco ci dice i luoghi di quella giornata: la sinagoga, la casa, la porta della città, e un imprecisato luogo deserto, un “eremo”, il tutto nell’arco di una giornata; dice i tempi: di giorno, la sera, la notte profonda, il mattino.

Gesù è l’uomo che cammina, lo si vede operare quasi con una fretta dentro. C’è l’avverbio “subito”, ripetuto nel testo, come se lo divorasse quel “subito”, come se lo bruciasse una fretta. Quella che pervade tutta la sua giornata, è la fretta per Dio e per gli altri, per il Regno di Dio.

Viene dunque la sera, è già tramontato il sole e ancora gli portano tutti i malati e gli indemoniati. Ne guarisce molti. Scende la notte, è tramontato il sole. «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e uscito si ritirò in un luogo deserto e là pregava». E, ancora, come se Gesù avesse bisogno di andare al Padre per non venire meno nella fede, per non rimanere schiacciati dalle situazioni.

A volte lo proviamo anche noi, tutti noi, questo desiderio di silenzio, dopo una giornata in cui ti è pesata addosso la sofferenza del mondo, come un desiderio di stare con il Padre. Perché la visione di un carico disumano di sofferenze dell’umanità mette a dura prova la nostra fede in Dio. E nel luogo deserto, nella preghiera, hai il coraggio di chiedere che ti sia conservata la fede, nonostante tutto.

Ma sfiorando il silenzio della preghiera di Gesù, troviamo un richiamo ad una nostra preghiera fatta di silenzi, ci ha messo in guardia dalla preghiera prolissa che confida nella moltitudine delle parole: «Prega nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto ti ascolterà». Più che le parole, e prima delle parole quando preghi respira nel silenzio una presenza, come succede nel silenzio degli innamorati.

C’è anche un silenzio di Gesù mentre percorre le strade; le sue preghiere non nascono tanto nella sinagoga, nascono dalla strada, perché lui ascoltava e osserva. Gli nasce il pensiero di Dio guardando gli uccelli dell’aria, i gigli del deserto, la farina che la donna sta impastando, l’olio della lampada. Ci vuole silenzio per far parlare le cose.

 

4.2    Il silenzio della pubblicità

C’è un silenzio impressionante di Gesù nei vangeli, un silenzio che ci sconcerta e ci interroga ed è il silenzio che Gesù impone sulla sua identità di Messia. Guarisce i malati e dice: «Non dirlo a nessuno». Vuole il silenzio. Marco scrive: «E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni. Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”. Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte».

In luoghi deserti, “eremo” nel testo greco, luoghi di eremo. È un Gesù preoccupato che passi di lui l’immagine di un Messia dai gesti miracolosi, un Messia trionfante, il Messia dei troni. Rifiuta pubblicità ingannevoli che tradirebbero la sua vera immagine. Cerca il silenzio. Si dilegua.

Gli capitò per esempio quando su una montagna quel giorno condivise i cinque pani e i due pesci di un ragazzino con i cinquemila. Fu allora che «la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo! Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo» (Gv. 6, 14_15). C’è qui un desiderio di solitudine, desiderio di fuga dal delirio delle folle. E questa segretezza, “stare nel silenzio”, questa segretezza, lui la pretese, anche dai suoi discepoli, che non avrebbero dovuto suonare la tromba come fanno gli ipocriti.

 

4.3    Il silenzio della misericordia

«Gli condussero una donna sorpresa in adulterio». Secondo la legge di Mosè va lapidata. «La legge a noi ha comandato di lapidare donne come questa». Nelle parole si sente tutto il disprezzo per la donna. Proviamo ad immaginare tutto quel clamore, quel pettegolezzo, quel vociare intorno alla donna. E d’improvviso cade il silenzio. La reazione di Gesù è sorprendente. «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra». Non sappiamo che cosa abbia scritto. Sappiamo invece quali fossero i pensieri che gli abitavano il cuore. Le parole sulla sabbia non sono rimaste scritte. Invece le parole dette subito dopo, poche parole fatte risaltare dal silenzio, sono rimaste scritte nel vangelo. E le prime furono a smascherare l’ipocrisia, in particolare l’ipocrisia religiosa. «Chi è senza peccato…» Le parole feriscono l’aria. Se ne vanno, tutti, smascherati. Ritorna il silenzio, il rabbi scrive per terra. Rimane la donna. E qui è lo scandalo: una donna, di cui nel vangelo non è registrata neppure una parola che esprima pentimento. Gli altri l’avevano assediata con i loro sguardi dall’alto in basso. Quel rabbi l’aveva guardata dal basso più basso. Aveva colto nei suoi occhi una paura di condanna, uno smarrimento. Si sentì dire, e adesso Gesù si era alzato, era a livello di occhi: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ella rispose: “Nessuno, Signore”. “Neanche io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”. Gli altri la incenerivano con il loro sguardo. Quello di Gesù invece è uno sguardo silenzioso, un silenzio che rimette in cammino.

 

  1. Il silenzio di Gesù nella passione:

5.1    Al Getsemani: il silenzio dell’abbandono alla volontà del Padre.

Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E difatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva. Il momento più significativo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Il silenzio è una parola importante per spiegare chi Egli è.

Sono gli evangelisti stessi che ci riferiscono del silenzio di Gesù durante le varie tappe della sua passione. Più volte egli viene provocato dalle domande arroganti e ingiuriose dei suoi nemici. Ma Gesù tace. Ed anche durante la sua agonia egli rimane quasi sempre chiuso nel suo silenzio.

Il suo è il silenzio della preghiera, un silenzio cioè che nasconde e avvolge in un clima di difesa il suo intimo dialogo d’amore con il Padre. Quando viene lasciato solo, anzi emarginato e rifiutato dagli uomini, Gesù non piomba in una solitudine che lo fa tremare di paura e di angoscia, ma continua a vivere, in una serenità del tutto imperturbabile, la sua comunione con Dio: una comunione straordinariamente colma di tantissimi pensieri, desideri, sentimenti, affetti.

Il silenzio di Dio. Il racconto del Getsemani (Mc. 14,32-42) è apparentemente un dialogo. Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli o al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo. Le cinque parole di Gesù cadono nel vuoto, persino la sua preghiera al Padre: è il momento più drammatico e profondo in cui egli, nel dialogo col Padre, accoglie fino in fondo la sua volontà. Tutto il resto non sarà che manifestazione e sviluppo visibile di questo intimo evento personale. Da questo momento, l’agire di Gesù diventa quasi un lasciarsi trasportare, egli appare passivo, rinuncia alla sua forza e si consegna totalmente, in un drammatico atto di obbedienza: Si compiano dunque le Scritture (Mc 14, 49).

Fra le poesie più belle di padre David Maria Turoldo è forse da annoverare questa rilettura del Getsemani i. Nella sua poesia l’esperienza di Gesù e la propria si sovrappongono, vicendevolmente illuminandosi: «Ti invocava con tenerissimo nome:/ la faccia a terra/ e sassi a terra bagnati/ da gocce di sangue:/ le mani stringevano zolle/ di erba e fango:/ ripeteva la preghiera del mondo:/ “Padre, Abba, se possibile”…/ solo un ramoscello d’olivo/ dondolava sopra il suo capo/ un silenzioso vento…». Il motivo del silenzio di Dio è ricorrente nella poesia di Turoldo.

L’esperienza del silenzio di Dio non dice la debolezza della fede, ma la profondità e l’umanità della fede, e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita il male sul bene. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare. Difatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte, attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine, dopo aver pregato, Egli è tornato sereno e pronto: «Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino» (14,42).

 

5.2    Il processo al Sinedrio: il silenzio della dignità

Durante i vari processi che ha dovuto subire, Gesù tace. Può sembrare strano questo silenzio: Egli rinuncia a difendersi e rifiuta di controbattere i falsi testimoni che lo accusano; di fronte delle accuse che si susseguono Gesù tace. «Il sommo sacerdote, alzatosi in piedi, gli disse: “Non rispondi nulla? Non senti quello che testimoniano costoro contro di te?” Ma Gesù taceva». Anche il sommo sacerdote si irrita e gli dice: «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». (Matteo 26:62-63) Finché non viene interrogato dal sommo sacerdote in modo diretto: Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto? (Mc 15, 61). Gesù allora manifesta apertamente la sua identità: Io lo sono (Mc 15, 62), ottenendo in cambio la condanna a morte per bestemmia (cfr. Mc 14, 63-64).

È il silenzio di chi anche nell’umiliazione conserva intatta la sua dignità. È il silenzio di chi è lucidamente consapevole della falsità dei giudici, che fingono un interrogatorio, in realtà avendo già deciso la condanna: è inutile difendersi. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto ed è inutile ridire. Soprattutto è il silenzio del giusto, che di fronte alle accuse non si difende, perché ha posto interamente la sua fiducia nel Signore, che non abbandona.

Questo silenzio di Gesù suggerisce diversi riferimenti anticotestamentari. Isaia 53,7: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,

e non aprì la sua bocca». Di fronte agli uomini che lo condannano a motivo della sua giustizia, il silenzio del servo del Signore esprime dignità; e di fronte a Dio esprime accettazione e fiducia: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sal 39,10). «Tende lacci chi attenta alla mia vita, trama insidie chi cerca la mia rovina, e tutto il giorno medita inganni. Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca; sono come un uomo che non sente e non risponde. In te spero, Signore; tu mi risponderai, Signore Dio mio». (Salmo 38:13-16)

La scena degli oltraggi (Mc 14,65) è di sorprendente densità: «Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: “Indovina”. I servi intanto lo percuotevano». La figura di Gesù insultato e percosso è scolpita al vivo, come su una pietra. In una specie di gioco a mosca cieca, col volto coperto, schiaffeggiato, Gesù deve indovinare chi lo colpisce. Ha preteso di essere Messia e profeta, lo dimostri! Ma Gesù sta in silenzio e non indovina. Il silenzio di Gesù può infatti essere letto in due modi: come la prova della totale infondatezza della sua pretesa messianica, o come la rivelazione della sorprendente e affascinante novità del suo essere Messia. Un Messia che sta al gioco a modo suo e non indovina chi lo percuote, ma rimane nel silenzio, svela tutta la sua differenza, la differenza che corre tra il modo con cui l’uomo immagina Dio e il modo in cui Dio è veramente. Questo silenzio di Gesù è stato poi ripreso e interpretato in un inno della prima comunità cristiana: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia» (1Pt. 2,23).

5.3    Gesù di fronte a Pilato e ad Erode: il silenzio dell’incomprensione

Il secondo processo, quello romano, si svolge davanti a Pilato (cfr. Mc 15, 1-15). In questo caso la domanda diretta, posta dal governatore, precede l’elenco dei capi di imputazione presentato dai capi dei Giudei. «Tu sei il re dei Giudei?» (Mc 15, 2), chiede Pilato, e Gesù risponde subito: «Tu lo dici» (Mc 15, 2). Poi tace di nuovo e non si cura delle accuse che si moltiplicano a suo carico. Marco specifica che «Pilato ne restò meravigliato» (Mc 15, 5) e proprio registrando questa reazione del governatore romano rende testimonianza alla realtà che sfuggiva al pagano: Gesù si è ormai ritirato in un altro luogo, dal quale scaturirà la sua azione decisiva.

Commovente e maestoso è il silenzio di Gesù di fronte ad Erode, da cui Pilato lo invia, (Lc 23, 8-11) che lo interroga con “molte domande”. «Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla» (Lc 3,8-9). Ma sono domande curiose, superficiali, che non sorgono dal desiderio di verità, ma dalla speranza di vedere qualche prodigio. E Gesù non risponde.

Quando Gesù, sul piano dell’azione ha ormai tutto compiuto, quando ha pronunciato tutte le parole necessarie per annunciare e correggere, a Gesù non rimane che la forza della nuda testimonianza: Io lo sono (Mc 15, 62), Tu lo dici (Mc 15, 2). Essa ha una fecondità misteriosa, perché rivela un altro attore degli eventi, il Padre in cui Gesù confida.

 

5.4    Il silenzio sulla croce: il silenzio dell’affidamento

E infine Gesù riceve in silenzio la condanna, si sottopone alla flagellazione (cfr. Mc 15, 15) e allo scherno volgare dei soldati pagani (cfr. Mc 15, 16-20); Senza cercare si sfuggire, Gesù procede verso il supplizio della croce. in silenzio percorre la via che porta al Golgota (cfr. Mc 15, 21). Incompreso, respinto, umiliato, è in una completa solitudine; sotto lo sguardo di Dio, avanza spontaneamente verso la morte. In silenzio viene crocifisso (cfr. Mc 15, 24-27); accetta senza reagire le ingiurie dei passanti (cfr. Mc 15, 29, 30), il sarcasmo dei capi dei sacerdoti che ancora chiedono un miracolo perché vediamo e crediamo (Mc 15, 32) e perfino gli insulti dei due malfattori crocifissi ai suoi fianchi (cfr. Mc 15, 32). Tutti parlano di Gesù e contro Gesù, ma Lui tace.

D’ora in poi Gesù non parla più agli uomini, si rivolge solo al Padre in un ultimo grido innalzato dalla croce prima di morire (cfr. Mc 15, 34): «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: «Ma Gesù, dato un forte grido, spirò».

La Croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso manifestare fino a che punto un Figlio di Dio condivide l’esperienza del silenzio che l’uomo incontra davanti al suo Dio. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio. Tutta questa sorprendente rivelazione è racchiusa nel silenzio di Gesù sulla Croce. Ma il silenzio della croce, lui ce l’ha ricordato, non è silenzio morto, silenzio senza futuro, è silenzio di attesa è il silenzio del seme nella terra, non è spegnimento. è brace. In Lui, il silenzio è anche il linguaggio dell’amore. Un amore più forte della morte, per Dio e per tutti noi.

Per la riflessione personale:

–        Quali passaggi della proposta mi hanno colpito di più?

–        Quali silenzi di Gesù ha sperimentato nella mia vita?

–        A quali scelte sono chiamato, che cosa diventa appello per la mia vita?