Chiese e guerra: i profughi che arrivano portano anche le ferite delle contrapposizioni tra le Chiese cristiane presenti in Ucraina

Una paziente comprensione della realtà ecclesiale deve abbinarsi alla necessaria e urgente azione caritativa

Si dice che dietro ai cannoni ci sia sempre un’idea. A volte anche religiosa. E’ purtroppo il caso della guerra in Ucraina. Per comprendere ciò che sta accadendo è necessario, infatti, considerare anche la complessa e sofferta situazione in cui versa da molti decenni il cristianesimo ucraino. Si tratta di una complessità che affonda le sue radici sia in vicende storiche più o meno lontane nel tempo, delle quali non esiste ancora una memoria e un’interpretazione condivisa, né una conoscenza diffusa in Occidente, sia di una visione ecclesiologica che non è quella latina nella quale viviamo. Questi elementi rendono per un “occidentale”, particolarmente difficile – al di là della veridicità delle notizie – la comprensione di quanto sta accadendo in Ucraina e lo espongono al rischio di semplificazioni, magari sull’onda di un comprensibile coinvolgimento emotivo-mediatico. In questa riflessione, al prezzo di qualche necessaria omissione, si vuole offrire qualche elemento utile per comprendere meglio quanto sta accadendo in Ucraina, ma che, con i dovuti distinguo è già accaduto in Estonia negli anni Novanta.

Tre diverse Chiese in Ucraina
L’intreccio inestricabile tra storia ed ecclesiologia aveva condotto, prima dell’inizio della guerra, alla creazione di tre diverse Chiese all’interno del territorio dell’attuale Ucraina. Nella zona occidentale è presente la Chiesa greco-cattolica ucraina. Si tratta di una tra le più significative Chiese cattoliche di Rito Orientale nata nel 1595 con l’Atto di Unione siglato nella città di Brest (allora polacca) con il quale la Metropolia ortodossa di Kiev si (ri)univa alla Chiesa di Roma. Le vicende storiche hanno fatto sì che questa Chiesa si radicasse particolarmente in quelle regioni (Galizia) che appartennero per secoli all’Impero Austro-ungarico e al Regno di Polonia e che la sede dell’Arcivescovo Maggiore capo di questa Chiesa fosse fissata a Leopoli. Con l’annessione di queste terre da parte dell’Urss, Stalin ne decretò nel 1943 la soppressione. Seguirono anni di persecuzione spietata e la Chiesa sopravvisse in clandestinità e all’estero fino al crollo del regime comunista. Dalla nascita dell’Ucraina attuale (1991) la Chiesa greco-cattolica è sempre stata favorevole all’indipendenza da Mosca e alla creazione di una nazione ucraina. Segno tangibile di questo orientamento è stato lo spostamento nel 2005 della Sede dell’Arcivescovo Maggiore – attualmente Svjatoslav Ševčuk – da Leopoli a Kiev, anche contro il parere di Roma.

Molti fedeli greco-cattolici in Italia
La diaspora greco-cattolica ucraina è molto consistente anche in Italia, al punto che papa Francesco nel 2019 ha eretto l’Esarcato apostolico d’Italia che ha giurisdizione sui numerosi fedeli greco-cattolici ucraini presenti in Italia. L’esarca (il vescovo) è membro della Cei. Esiste una Comunità greco-cattolica a Treviso, che si ritrova nella chiesa di S. Stefano, e altre due nella diocesi di Vittorio Veneto.

Le due Chiese ortodosse
Le altre due Chiese sono, invece, ortodosse e rivendicano entrambe il titolo di “Chiesa Ortodossa d’Ucraina”. La Chiesa Ortodossa d’Ucraina (Cou), sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, è nata il 15 dicembre 2018 dall’unificazione di due Chiese ortodosse costituite o ricostituite nel 1992 dopo l’indipendenza dell’Ucraina dall’Urss: la “Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev” e la “Chiesa ortodossa autocefala ucraina”. Il 6 gennaio 2019 il Patriarca ecumenico Bartolomeo ha concesso l’autocefalia (indipendenza) alla “nuova” Chiesa, provocando la rottura della comunione tra Mosca e Costantinopoli. La frattura tra i due Patriarcati non è stata ancora sanata e nasce dalla netta opposizione di Kirill all’azione di Bartolomeo I, che si prefiggeva sia di normalizzare dal punto di vista canonico la situazione dell’Ortodossia ucraina, sia di accrescere il suo “peso ecclesiale” presso le altre Chiese Ortodosse. Dal punto di vista politico la costituzione della COU – fortemente sostenuta dall’allora presidente Porošenko – è stato un atto di non poco conto del tentativo di uscita dell’Ucraina dalla sfera russa. Infatti, l’istanza “autonomista” è condivisa sia dal potere civile, sia da quello ecclesiastico, e stava all’origine della nascita delle due precedenti Chiese scismatiche. Il primate di questa Chiesa è Epifanio (1979), metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina.
La “manovra” di Bartolomeo però è riuscita solo in parte, in quanto non tutte le Chiese Ortodosse presenti in Ucraina fino al 2018 si sono unite nella Cou. Anzi, a quest’ultima si contrappone la Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca (Cou-PM), che è voluta rimanere sotto la giurisdizione di quest’ultimo, mantenendo la configurazione giuridica di Chiesa “autonoma” all’interno del Patriarcato di Mosca. Il primate è Onofrio (1944), metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina. La Cou-PM è pertanto favorevole a una permanenza dello Stato ucraino nella sfera d’influenza di Mosca.
Attualmente esistono quindi tre diversi metropoliti di Kiev, cosa che determina una situazione anomala, non pienamente compresa e per certi aspetti pastoralmente difficile per i cristiani ucraini. In modo particolare per l’ecclesiologia ortodossa (non per quella latina) è incomprensibile l’esistenza di più di una gerarchia su di un uno stesso territorio tradizionalmente “di fede ortodossa”. Altro elemento che complica la questione è un “principio” dell’ecclesiologia ortodossa, quello della “sinfonia” tra Chiesa e Stato. Impostazione decisamente divergente rispetto a quella latina – e al modo di pensare occidentale -, dove la Chiesa considera l’autonomia dallo Stato un caposaldo della sua libertà. Questa “sinfonia” è anche lo sfondo ecclesiologico che ha portato alla progressiva frammentazione dell’Ortodossia in diverse Chiese e Patriarcati autocefali, organizzati su base nazionale, assecondando i movimenti nazionalisti che hanno attraversato l’Europa dall’Ottocento. Una simile impostazione si espone però a scivolare nel “collateralismo” con l’entità statale (l’impostazione latina presenta da parte sua altri rischi), che anche per ragioni storiche il Patriarcato di Mosca ha sperimentato per lunghissimi periodi dallo zar Pietro il Grande (1721). All’interno di questa tradizione e memoria s’inscrive la “sintonia” tra Putin e il patriarca Kirill, da sempre impegnato a ricucire e a consolidare l’unità della vastissima e plurietnica Chiesa Ortodossa Russa.

Quale ruolo nel conflitto?
Il ruolo giocato dalle Chiese nel conflitto non è pertanto determinato solo da “calcoli politici”, da ragioni e revanscismi storici, ma anche da una visione ecclesiologica che condiziona non solo la libertà delle Chiese, ma prima ancora la capacità d’interpretare gli eventi e di vagliare la legittimità dei percorsi messi in atto per realizzare la propria visione di Chiesa indipendente o autonoma. Entrambe le visioni sono legittime all’interno dell’ecclesiologia ortodossa, anche se non univocamente comprese. Dal canto loro i greco-cattolici – che si comprendono all’interno dell’ecclesiologia cattolica – desiderano la piena comunione dei cristiani di Ucraina, anche se nel loro caso l’esaudimento del desiderio passa attraverso la soluzione della questione ecumenica. Questione che, se ristretta alla sola Ucraina, sarebbe stata semplificata dalla nascita di un’unica Chiesa Ortodossa che avesse raccolto tutti i fedeli ortodossi ucraini.

La richiesta di pace cresce
Allo stato attuale del conflitto, greco-cattolici e Cou si trovano accomunati sia nel chiedere la pace sia nella comune interpretazione dell’attacco russo e la situazione più delicata e sofferta viene vissuta dalla Cou-PM. Gli ortodossi fedeli a Mosca, infatti, non solo sono aggrediti dai “fratelli russi”, ma vedono il proprio patriarca Kirill non prendere una chiara posizione di condanna dell’invasione (dichiarazione del 24 febbraio) e anzi cercare ragioni per giustificare la guerra (cfr. omelia del 6 marzo). In questo contesto brillano ancora di più le parole profetiche del metropolita Onorio (Cou-PM) che il 24 febbraio, rivolgendosi indistintamente a tutti gli ucraini dichiarava che è «avvenuta una tragedia. […] la Russia ha iniziato l’intervento militare contro l’Ucraina». Chiedeva «di dimenticare le liti e le incomprensioni reciproche e di unirci nell’amore a Dio e alla nostra patria» e «difendendo fino all’ultimo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, ci appelliamo al presidente della Russia perché cessi immediatamente questa guerra fratricida. […] Questa guerra non ha giustificazioni né presso Dio, né presso gli uomini». Onofrio ha aperto una via, lungo la quale è stato seguito lo scorso 9 marzo dall’arcivescovo Giovanni di Dubna, metropolita russo per l’Europa Occidentale (Parigi), che in una lettera aperta al suo patriarca Kirill, riferendosi alla nota omelia dello scorso 6 marzo, lo accusa di «giustificare questa guerra di aggressione crudele e omicida come “una battaglia metafisica”, in nome del “diritto di stare dalla parte della luce, dalla parte della verità di Dio, di ciò che la luce di Cristo ci rivela, la sua parola, il suo Vangelo…”. Con tutto il rispetto che vi è dovuto, e dal quale non mi allontano, ma anche con infinito dolore, devo portare alla vostra attenzione che non posso sottoscrivere una tale lettura del Vangelo. Nulla potrà mai giustificare che i “buoni pastori” che dobbiamo essere, debbano cessare di essere “artigiani di pace”, qualsiasi siano le circostanze. Santità, umilmente, con il cuore pesante, la prego di fare tutto il possibile per porre fine a questa terribile guerra che sta dividendo il mondo e seminando morte e distruzione». Dopo la stessa omelia, 15 vescovi di altrettante diocesi della Cou-PM non hanno commemorato il Patriarca di Mosca nella Divina liturgia. Il gesto non è solo simbolico: nell’ecclesiologia ortodossa rivela una mancanza di comunione. Mentre il 1° marzo quasi 300 sacerdoti ortodossi russi hanno firmato una petizione online per chiedere la pace, ponendosi in sintonia con gli organismi ecumenici e le Chiese cristiane che, nel mondo, chiedono la pace “senza se e senza ma”. La guerra e l’atteggiamento di Kirill stanno scavando un solco non solo tra il Patriarcato e la Cou-PM, ma anche all’interno della stessa Chiesa Russa e forse dell’intera Ortodossia, innescando dinamiche che non sappiamo quale esito avranno nel presente e nel futuro e con riflessi consistenti sui rapporti tra le Chiese, non solo in Ucraina.
Proprio per questa ragione è necessario comprendere in maniera corretta il peso della componete religiosa all’interno del conflitto ucraino, senza considerarlo una guerra di religione e senza pensare che si tratti di arzigogolate dell’Ortodossia, che non ci riguardano o che riguardano solo l’ecumenismo. I profughi che stanno arrivando, infatti, portano anche le ferite delle contrapposizioni tra le Chiese e così sarà per la diaspora ucraina che questo conflitto contribuirà ad allargare in maniera stabile. Senza contare che una parte significativa dell’accoglienza sarà svolta da persone, istituzioni, organismi – anche da Stati -, che l’Oriente considera ancora cattolici. Lungimiranza e una paziente comprensione anche della realtà ecclesiale il più possibile scevra da generalizzazioni devono abbinarsi alla necessaria e urgente azione caritativa. Se dietro al cannone ci può stare un’idea, dietro alla carità ci sta sempre il Vangelo. Un Vangelo che cammina in mezzo alla guerra grazie al coraggio di uomini e donne che contemporaneamente agiscono, pregano e pensano.

don Luca Pertile

delegato diocesano per l’Ecumenismo