Esiste un dovere di contribuire alla vita democratica? – Intervista al filosofo Giovanni Grandi

In Italia, alle recenti elezioni europee dello scorso giugno, ha partecipato il 49,7 per cento degli aventi diritto. È la prima volta che nella storia repubblicana si registra una simile affluenza in elezioni di questo genere. La crisi di partecipazione alla vita democratica del Paese non pare conoscere rallentamenti. In un bel volume intitolato “Democrazia e amicizia sociale. Superare la crisi della partecipazione” (Ave, 2024), il filosofo morale Giovanni Grandi cerca di declinare un nuovo paradigma di partecipazione attraverso la relazione fra democrazia e amicizia sociale. Professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste, Grandi fa parte del Comitato scientifico delle Settimane sociali dei cattolici in Italia.

Ecco una intervista a Grandi, a cura di Rocco Gumina, per il sito Settimananews, a partire dai contenuti dell’ultimo libro del filosofo.

– In Italia, alle recenti elezioni europei dello scorso giugno, ha partecipato il 49,7 per cento degli aventi diritto. È la prima volta che nella storia repubblicana si registra una simile affluenza in elezioni di questo genere. Dato per certo che la nostra democrazia non può ridursi all’adesione ad una sorta di “click day” sganciato dal continuo interesse per la cosa pubblica, cosa sta accadendo al nostro Paese?

Più di qualcuno all’indomani delle elezioni europee ha richiamato il successo del film di Paola Cortellesi – “C’è ancora domani” – accostandolo con amarezza all’ennesima contrazione della partecipazione al voto: che fine ha fatto la celebrazione unanime e diffusa del messaggio che portava? La pellicola, alla fine del 2023, era stata vista da circa 4 milioni e mezzo di Italiani, un successo davvero significativo, da cui tuttavia si è fatto sollecitare pur sempre poco più del 10% della popolazione. Una percentuale – sempre arrotondata – che si rispecchia anche nei dati ISTAT sulla popolazione attiva nel volontariato organizzato, che tra il 2015 e il 2021 ha subìto un calo del 15,7%, coinvolgendo a sua volta poco più del 10% degli Italiani. Tra i due dati, naturalmente, non c’è correlazione, ma in modo diverso raccontano di un Paese in larga misura estraneo all’idea che esista un “dovere” di concorrere attivamente al bene comune della società, secondo le previsioni dell’art. 4 della Costituzione: molte persone oggi semplicemente assistono allo svolgersi della vita civile, cercando la propria strada individuale (o di piccolo gruppo) per vivere al meglio, ma senza prendere in considerazione l’idea di contribuire al bene comune mettendo a disposizione di tutti le proprie competenze o risorse. La disponibilità “per altri” è difficile, specie se si tratta di estranei, come non possono che esserlo la maggior parte dei concittadini. Questo, attenzione, non significa che sia in crisi tout-court il senso di solidarietà: sappiamo che nei frangenti eccezionali questo si riattiva, ma è diventato qualcosa che si accende sulla spinta dell’emozione, non tanto di una convinzione meditata su ciò che costituisce una comunità civile. Sono gli effetti di lungo corso di una cultura del consumo individualista, che ha corroso lentamente la coesione sociale e la percezione dei buoni vincoli di concittadinanza da coltivare e rinnovare mettendosi a disposizione. La domanda allora, al di là della diagnosi, riguarda la terapia: come uscire da questo “sonno”, che è anche un sonno della democrazia?

– Nel suo ultimo volume ha cercato di declinare la relazione fra democrazia e amicizia sociale come strumento per favorire la partecipazione. In questa visione, cosa significa prendere parte alla vita politica della propria comunità?

Partecipare alla vita democratica non significa esclusivamente esserci al momento del voto, non è una questione di “click-day” si diceva giustamente. La democrazia è una questione di potere, e di modi attraverso cui questo è assunto e impiegato dal popolo, dalle persone, per trasformare – in meglio, auspicabilmente – la vita di tutti, non solo la propria o quella della propria parte. In questo senso, alla Settimana Sociale di Trieste, il Presidente Mattarella ha messo in guardia dal confondere il “partecipare” con il “parteggiare”. Il potere politico rappresenta la possibilità di organizzare la circolazione delle risorse, secondo quel movimento che è ben disegnato dalla giustizia contributiva (il dare, che parte da ciascuno, secondo capienza) e dalla giustizia distributiva (il restituire, disegnato nei modi e nelle proporzioni dalle istituzioni); prendere parte alla vita della propria comunità significa allora cose diverse, tutte necessarie: significa mettere a disposizione qualcosa delle proprie competenze, del proprio tempo, delle proprie risorse economiche; significa portare idee nelle istituzioni e prendersene cura, anche impegnandosi personalmente, perché trasformino la realtà secondo giustizia; significa poter incidere sulle decisioni di tipo politico, anche da semplici cittadini. Quando uno o più di questi tratti iniziano a mancare diffusamente, la vita civile ne soffre.

– In alcuni passaggi delle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, papa Francesco ha sottolineato la rilevanza sociale e politica dell’amore. Concretamente, come si genera l’amore sociale e politico?

Si genera e soprattutto si rigenera praticandolo, e in particolare superando la postura del creditore, che un po’ tutti assumiamo quando ci disponiamo in attesa che “altri” facciano, provvedano, ci pensino, si impegnino… Non è una postura in sé ingiustificata: a tutti noi capita di attraversare periodi in cui abbiamo l’impressione che la vita chieda troppo, e talvolta è proprio così e abbiamo bisogno di essere sostenuti, aiutati, soccorsi perfino. Ci sono momenti, in cui davvero “tocca agli altri” e “alla società” fare qualcosa. Ma è viceversa proprio quando le cose rientrano nella loro ordinarietà di alti e bassi che occorre riscoprirsi anche “debitori” verso la comunità civile, individuando quel qualcosa di nostro che possiamo rimettere in circolazione a beneficio di tutti. Ritorno al principio dell’articolo 4 della Costituzione, che richiama ciascuno alla contribuzione “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”: possiamo essere creativi nelle forme di restituzione che generano socialità e buoni legami, ma non dimentichiamo che il contribuire, nella nostra democrazia, non è una opzione eventuale ma un dovere.

Leggi l’intervista completa, a cura di Rocco Gumina, nel sito di Vino nuovo