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Messaggio del Vescovo: A Natale comincia una storia d’amore

Buon Natale! Vorrei salutarvi così, semplicemente. Senza giudizi, senza lezioni a chicchessia, senza prediche. In questo mio primo Natale a Treviso mi piacerebbe guardare negli occhi ciascuno di voi che state leggendo queste righe, sia che ci conosciamo già, almeno un poco, sia che non ci siamo ancora mai visti.

Mi piacerebbe che in questo sguardo poteste leggere fiducia, saldezza, speranza; non tanto le mie, quanto quelle che Dio stesso ci dona.
Mi piacerebbe che quel mio debole sguardo potesse trasmettere il calore che io ricevo dal sapermi amato da Dio che, creatore, si mette in mano alla sua creatura, tanto fiducioso da permetterle di rifiutarlo, di negarne persino l’esistenza, o almeno l’autentica volontà d’amore.

So che non è possibile, ma so anche che non è nemmeno necessario: è Il Signore che volge a noi il suo sguardo: è lui che ci guarda e che ci vede. Vede la nostra vita, la nostra fatica. Vede lo sforzo talvolta sovrumano di tanti per continuare a vivere e a prendersi cura, nonostante tutto, di molte altrui fragilità, pur avendo essi a loro volta bisogno di aiuto e sostegno.

Buon Natale: che la nascita del Signore Gesù Cristo sia buona per te, che ti porti bene. Così vorrei che poteste accogliere questo saluto.

Ma per tanti questo augurio rischia di incontrare solamente una pena, magari grande, antica o improvvisa, resa se possibile più acuta e lancinante dal clima festivo che quasi impone serenità e un anelito di pace che fa sentire invece inadeguati o soli, se confrontati con il limite del dolore e della morte. Penso a chi ha perso in modo improvviso una persona cara, a chi porta il peso della malattia e della solitudine, a chi in molti modi si sente scartato, abbandonato, tradito; a chi non riesce più a sperimentare fiducia e calore umano. Penso a chi non trova un posto per vivere, per sostare, per respirare in pace e in sicurezza.

Da solo non riesco a trovare le parole che possano risolvere queste e altre situazioni, o che almeno riescano a riaprire orizzonti. Non ho nemmeno da offrire a ciascuno quello sguardo di fiducia e speranza che vorrei, per quanto disarmato e impotente.

Guardo però quel bambino; lo vedo e credo che lui è Dio. In lui vedo che Dio è proprio così, indifeso, vicino, disponibile, infinito amore che mi chiama a concentrare tutta la mia vita, e anche tutta la storia del mondo in quella silenziosa presenza, in quel suo sguardo, in quella disarmata e disarmante piccolezza.

Lascio allora parlare la fede della Chiesa, le parole che chiamo a stampella della mia finitezza e del mio limite: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo” (credo Niceno-Costantinopolitano).

Noi ripetiamo queste parole ogni domenica nell’atto di fede celebrando insieme l’Eucaristia.
Sono parole su cui forse ci soffermiamo poco e che recitiamo senza più inciamparci sopra o senza sentire il bisogno di trattenere il respiro per la meraviglia, ormai anche senza più nemmeno protestare di fronte all’inaudito, senza piangere o cantare per la gratitudine o senza rimanere attoniti per l’inaspettata tenerezza di Dio che insieme sconvolge e riconcilia chi grida il proprio dolore.
Per noi uomini, e per la nostra salvezza: Gesù viene per noi, quello che Gesù fa lo fa per noi, quello che lui è lo è per noi.
Le parole della fede mi fanno riconoscere che quando Gesù pensava, valutava, decideva, agiva, lo faceva pensando a me e a noi, al mio e al nostro bene, che quando egli cresceva in sapienza e grazia lo faceva lasciandosi guidare dal suo amore per me, per noi, dal suo desiderio universale di salvezza. Ogni suo passo – andare da una parte o dall’altra, in Giudea o in Galilea, a casa dei peccatori o verso Gerusalemme, raccontare una parabola o guarire un malato, accettare la croce o rotolare la pietra dal sepolcro – tutto ciò che ha riempito la sua vita è stato determinato dalla sua intenzione di vita per me, per noi, per ogni uomo. Se lui è cresciuto ed è diventato adulto, se nella continua preghiera rivolta al Padre ha vissuto seguendo la sua chiamata; se egli è divenuto il maestro, il pastore, se ha umanizzato meravigliosamente la sua esistenza – vero uomo, vero Dio; tutto questo è avvenuto per me e per noi, per tutti, e lo ha vissuto desiderando il nostro bene, la nostra gioia. A Natale incomincia questa storia d’amore: Lui cresce per far crescere me, lui vive per far vivere me, lui mi ama per far amare me. Lui viene per me, per noi, per tutti.

E allora, semplicemente, a tutti voi: buon Natale.

+ Michele Tomasi

vescovo di Treviso

 

LA NATIVITA’ DI GESU’ DEL PADOVANINO

L’immagine è il quadro della copertina della “Vita del popolo” di Natale. Si tratta della “Natività di Gesù” di Alessandro Varotari, detto il Padovanino, conservata nella chiesa di San Teonisto a Treviso.
I volti di Maria e Giuseppe risplendono illuminati da una luce intensa che squarcia la profondità della notte. Maria solleva, con la mano sinistra, un panno bianco e mostra il bambino Gesù, che giace sul fieno: è lui la fonte della luce, quella luce che splende nell’oscurità della stalla e che le tenebre non riescono a soffocare, vincere, nascondere. Dietro a loro immancabili l’asino e il bue, mai citati dai Vangeli dell’infanzia, ripresi invece da un versetto del profeta Isaia (Is 1,3) ambientano la scena della natività e, allo stesso tempo, seguendo la lettura proposta dai padri della Chiesa, simboleggiano il popolo ebraico e i pagani che riconoscono e adorano il loro Signore. Sullo sfondo in lontananza notiamo un riverbero di quella stessa luce. È l’angelo che annuncia ai pastori la nascita del Salvatore, destandoli dal loro torpore e invitandoli a mettersi in cammino verso la mangiatoia di Betlemme. Domani Giuseppe e Maria inizieranno con il loro figlio un lungo e faticoso cammino, ma oggi i loro volti sono estatici, rapiti dalla gioia di questa nascita, di questa nuova luce, nella contemplazione del mistero di Dio che si fa bambino. (don Luca Vialetto)


Accresci in noi la fede: la richiesta dei discepoli a Gesù al centro dell’omelia del vescovo Michele

Una cattedrale gremita per l’ingresso del nuovo pastore della diocesi di Treviso, mons. Michele Tomasi. Circa 1500 le persone riunite in cattedrale e fuori, in piazza Duomo, a seguire la celebrazione sul maxischermo allestito per l’occasione. Tra loro anche una folta rappresentanza di sacerdoti e fedeli della diocesi di Bolzano – Bressanone. E molte sono state le persone che si sono collegate da casa a Telechiara e ai siti web diocesani (anche i nostri missionari dall’estero).

Un’omelia centrata sul Vangelo della XXVII domenica del Tempo ordinario, quella di mons.Tomasi, sviluppata attorno alla richiesta dei discepoli a Gesù: “Accresci in noi la fede”. Ecco il testo dell’omelia:

Cari confratelli nell’episcopato,

nel presbiterato

nel diaconato,

cari fratelli e sorelle religiosi,

cari sorelle e fratelli in Cristo,

“Accresci in noi la fede”: una bella domanda, questa dei discepoli: una domanda che ci appare questa volta sì, adeguata, giusta. Essi non chiedono, infatti, posti di privilegio o di potere, non pretendono questa volta di stare alla destra e alla sinistra del Signore. Essi gli chiedono che dia loro un “di più” di fede.

Partono da una mancanza, dalla sana consapevolezza che pur avendo seguito Gesù, pur avendo concretamente affidato a lui la loro stessa vita, ancora non sono in grado di fare il salto. Quel salto che permetta loro di dire di credere sul serio. Questa mancanza non è un bisogno da soddisfare, un vuoto da colmare con qualche atto, con un progetto, con un qualche “fare” pastorale o sociale, così che si possa poi acquietare con una risposta definita, seppur transitoria: una volta che sono sfamato sono a posto almeno sino alla prossima volta che quel vuoto si ripresenta, prepotente; una volta che la mia vita è organizzata con cura, sono a posto, tranquillo, realizzato, almeno fino alla prossima crisi.

No, questa mancanza è in una dimensione differente, si presenta ai discepoli come qualcosa di nuovo, di inedito, di sinora mai visto ma ormai chiaramente percepito: essa segnala loro qualcosa che in modo leggero, discreto, sottile tocca il profondo della loro vita: essi vivono un momento che attraverso questa domanda così improvvisa, così netta e secca rivela loro che il gioco si è fatto serio ed è decisivo: dobbiamo fare un salto di qualità, Signore, perché quanto ci chiedi ci spaventa e ci mette in grande difficoltà ma al tempo stesso non cessa di attirarci, di affascinarci.

Ecco che il Vangelo – nostra vera ed autentica guida – ci propone di fare questa richiesta: “Accresci in noi la fede”.

La domanda è posta con urgenza dai discepoli, perché poco prima il Signore li aveva richiamati con una certa durezza alla decisione radicale di non dare scandalo ai piccoli, a preferire il bene di questi anche alla propria stessa vita e poi, in rapida successione, all’esigenza altrettanto e forse ancor più radicale della continua, perseverante disponibilità al perdono, anche quando il fratello dovesse senza sosta insistere nel farci del male.

È come se ai discepoli fosse chiara la distanza tra l’esigenza evangelica e la percezione della capacità da parte loro di realizzarla: “accresci in noi la fede”, facci credere che sia possibile vivere come vuoi tu, anche se, sotto sotto, siamo convinti che non sia proprio possibile. Vorremmo crederti, Signore, ma come si fa? Non puoi pretendere davvero ciò che ci chiedi, e forse non puoi darci davvero ciò che desideriamo: davvero il bene dell’altro è così importante da diventare norma delle mie scelte e della mia vita intera? Davvero la vita dell’altro è così importante che devo sempre di nuovo permettergli nuovi spazi di esistenza, di vita?

In definitiva: posso credere in un “di più” di vita, in una profondità di senso che abbia il sapore non soltanto della soddisfazione, ma piuttosto della gioia, dell’amore?

Che cos’altro avrebbero allora potuto chiedere i discepoli?

Che altro dovremmo a nostra volta poter chiedere noi?

Non certo perché tutte le altre cose che ci viene in mente di chiedere non siano importanti – la salute, il lavoro, il bene dei figli, la consolazione per i genitori anziani, un poco di tranquillità, la serenità con i vicini. Anzi tutte queste e tante altre preoccupazioni che muovono le persone ogni giorno, che le spingono – che ci spingono – a lavorare, ad impegnarci, in una parola, a vivere, sono proprio il luogo in cui il Signore viene a visitarci e viene ad abitare con noi.

Io stesso vorrei chiedere al Signore – e glielo chiedo, ve lo confesso, in questo momento così particolare della mia vita – di poter svolgere il compito che mi viene affidato di essere vostro Vescovo con saggezza, con salda mitezza, con mite fermezza, di poter essere una buona guida per una chiesa viva e fedele qual è questa Chiesa di Treviso; voglio chiedere e chiedo di poter superare i miei limiti, o almeno di poterli rendere quanto più innocui possibile, e di poter impiegare al meglio i doni che il Signore mi ha fatto e continua a farmi.

Ma per quanto anche questa richiesta – come tante altre – sia buona, sia giusta, sia forse anche doverosa, essa non è ancora giunta al cuore di ciò che sento decisivo ed irrinunciabile, di ciò che questo momento mi chiede, ci chiede.

Fammi credere di più; fammi cogliere con la mente e con il cuore che in ogni preoccupazione, in ogni responsabilità, in ogni momento per quanto banale della vita mia e dei fratelli e delle sorelle ci sei tu che mi ami, che ci ami, tu che per ciascuno e per tutti hai donato tutto te stesso, la tua stessa vita. Fammi credere che tu sei il Signore della mia vita, della Chiesa, della storia. “Mio Signore, mio Dio”.

A questa domanda che sapientemente hai fatto affiorare, tu dai una risposta ancora più provocatoria: “Se aveste fede quanto un granello di senape”… basta così poco, dunque? E sono così debole nella fede, così povero? Quel “di più” pesa quanto un granello di senape, un nulla – del resto anche il tuo passaggio è “voce di un tenue silenzio”. Ed io non posseggo nemmeno quello. Ed è bene così, è proprio bene che non lo possegga, perché ce lo hai tu, e tu me lo doni. Perché sei tu la forza, tu il perdono, tu porti su di te il peso dello scandalo, dello scacco, del fallimento, della morte. Tu sei colui che sta in mezzo a noi come colui che serve, tu ti sei cinto il grembiule e ti sei chinato a lavare i piedi degli apostoli, nell’ultima cena. Tu sei il servo che inutile – non però uno buono a nulla, ma uno che non insegue un utile, che è gratuità pura – tu sei il servo della nostra Chiesa, della nostra gente, della nostra vita, della vita di ogni uomo.

Io, da solo, non sono neppure capace di essere un servo inutile, di essere solo e semplicemente un servo.

È tutto “inutile” allora?

No, tu ti sveli e ti riveli nella tua tenue Parola; ti lasci consumare da noi nell’Eucaristia; ti fai splendore nel volto dei piccoli e dei poveri, ti mostri all’opera nella comunità, dai luce di orientamento ai cammini della storia.

E noi? Riesci a catturarci ancora? O siamo ormai troppo pieni di noi stessi?

Ci doni oggi quel “di più” di fede?

Lascia che esso irrompa nella nostra vita, vieni a cercarci, stanaci dalle nostre paure, fa‘ che siamo “rapiti dalla tua bellezza” (“Domini pulchritudine correpti”: permettimi padre Agostino di affidarmi ora al tuo motto episcopale);

fa’, Signore, che amati riamiamo, semplicemente, cercando come sola ricompensa il tuo amore.

Signore, “Accresci in noi la fede”.


Il 20 settembre a San Nicolò il saluto a mons. Gardin

Venerdì 20 settembre, nel Tempio di San Nicolò – Treviso, alle ore 20.30, il vescovo Gianfranco Agostino celebrerà la S. Messa di ringraziamento al Signore nell’imminenza della conclusione del suo ministero pastorale nella nostra Chiesa.  Unitamente ai sacerdoti, i quali potranno concelebrare, sono invitati tutti i fedeli, in particolare i membri dei Consigli pastorali parrocchiali e di Collaborazione e gli operatori pastorali.

La celebrazione sarà occasione pure di un saluto filiale al vescovo da parte dell’intera Diocesi, riconoscente per il dono di quanto ha comunicato e testimoniato.


Maria ci aiuti a crescere nella fraternità, nella solidarietà, nella ricerca del vero bene

agenzia fotofilm treviso messa del cero chiesa di madonna grande

agenzia fotofilm treviso messa del cero chiesa di madonna grande

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Nella celebrazione eucaristica per la solennità dell’Assunzione di Maria, presieduta stamattina nella basilica di santa Maria Maggiore a Treviso da mons. Gianfranco Agostino Gardin, amministratore apostolico della nostra diocesi, si è rinnovato il dono del cero alla Madonna da parte dell’Amministrazione comunale della città, omaggio che richiama una tradizione di 700 anni fa.

Ecco l’omelia pronunciata da mons. Gardin:

“Carissimi fratelli e sorelle, carissimi sacerdoti, illustre Signor Sindaco, illustri membri della Giunta e del Consiglio Comunale, illustri Autorità,

sappiamo bene che il gesto dell’offerta del cero alla Vergine, compiuto ancora una volta da parte della città, per le mani del Sindaco, che ringrazio vivamente, è una tradizione che viene da lontano: da oltre 700 anni.

  1. Non possiamo non osservare che quelli erano tempi in cui esisteva un legame diverso, rispetto ad oggi, tra la comunità civile e la comunità religiosa. Vi era una specie di coincidenza, almeno esteriore, tra le due comunità. Oggi, dopo tanti anni, abbiamo imparato giustamente a separare i due ambiti, quello civile e quello religioso, in un reciproco rispetto, ma anche spesso in una reciproca e serena collaborazione. Del resto è evidente che, mentre non si può non essere cittadini, cioè membri di una comunità civile, si può invece non essere credenti, cioè membri convinti e partecipi della vita di una comunità cristiana.

Dovremmo anche dire che gli eventi che hanno determinato questo gesto di omaggio alla Vergine non appartengono più alla vita e alle condizioni odierne della città: mi riferisco al fatto, accaduto nel 1300, di aver vinto una piccola battaglia dovuta ad una contesa circa alcuni confini del comune di Treviso; e al fatto, forse più significativo, accaduto nel 1312, della deposizione di un signore della città che tiranneggiava gli abitanti di Treviso. Oggi sono altri i problemi o le vicende che ci preoccupano o che ci coinvolgono. E forse eventuali vittorie o realizzazioni della società non suscitano più il bisogno di esprimere gratitudine alla Madonna. Qualcuno, in verità, anche ad alti livelli istituzionali, è solito ringraziare la Madonna, ma, a quanto pare, per ragioni che non sembrerebbero proprio trovare il consenso o la protezione della Vergine, almeno quella vera, quella che il Vangelo, come il brano odierno, ci fa conoscere e riconoscere. Suscitando, tra l’altro, il disappunto o l’indignazione dei veri credenti.

  1. La Parola di Dio che abbiamo ascoltato, infatti, ci pone di fronte all’inno di ringraziamento che Maria innalza a Dio pensando a ciò che Egli è e compie, e ha compiuto anche in lei e per il suo popolo. Maria, di fatto, riconosce e canta due caratteristiche di Dio.

Riconosce, anzitutto, una sua opera – potremmo dire – di rovesciamento, o di capovolgimento, di tante condizioni e situazioni umane negative. Sono condizioni di vita create dalle brame e dai progetti degli uomini. L’azione di “rovesciamento” operata da Dio fa sì che i superbi vengano dispersi, i potenti siano deposti dai troni, i ricchi si ritrovino a mani vuote; mentre gli umili e gli affamati, cioè i più poveri, siano innalzati (cf. Lc 1,51-53). È quello che dichiara Gesù, quando afferma, anch’egli con un’affermazione, per così dire, “sovvertitrice”: gli ultimi diventeranno primi (cf. Mt 20,16). Potremmo dire: coloro che i comuni criteri umani pongono all’ultimo posto, per Dio sono al primo posto.

La seconda caratteristica dell’agire di Dio, riconosciuta e cantata da Maria, è la sua misericordia, che si estende «di generazione in generazione», cioè che non viene mai meno, e che è come al cuore del suo modo di essere e di agire verso di noi. “Misericordia” è il nome scritto sulla carta d’identità di Dio. Dice Maria: «ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri» (Lc 1,50.54s.). Dio non può dimenticare la misericordia perché sta al cuore del suo essere. E Paolo, parlando di Gesù, ci ricorda: «Se noi siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,13). Non può rinnegare la sua misericordia.

  1. La preghiera di lode che Maria eleva deve ispirare anche la nostra preghiera.

Penso, in particolare, al bisogno e al dovere di ringraziare il Padre, guardando alla nostra città e alla nostra Chiesa trevigiana, per la presenza tra noi di tutti coloro che non si lasciano guidare dalla logica perversa dei forti e dei potenti che ignorano e addirittura schiacciano gli umili e i poveri, ma riconoscono e si prendono cura degli ultimi, dei sofferenti, dei piccoli, dei soli, dei rifiutati, dei disperati, di chi vive situazioni diverse di precarietà, solitudine, abbandono, sofferenza. Non mancano, anche nella nostra città, coloro che, con un cuore grande e generoso, in forme visibili o nascoste, a livelli più istituzionali o professionali o nell’intimità della loro casa, o nel volontariato, o comunque ponendosi in quelle realtà che papa Francesco definisce “periferie esistenziali”, si fanno “prossimi” verso i molti feriti dalla vita o sono resi emarginati. Tutto questo non sfugge allo sguardo paterno di Dio.

Il nostro grazie sale a Dio perché Egli continua a suscitare atteggiamenti che si ispirano al suo cuore ricco di misericordia. Penso ancora a tutti coloro che si lasciano guidare dalla compassione, dalla partecipazione alle fatiche dei più fragili, dei più sfortunati; coloro che cercano di capirli entrando nella loro storia; che sanno perdonare, ascoltare, dialogare, aiutare, accompagnare, sostenere, senza subito giudicare e condannare, magari considerandosi  giusti e puri di fronte ad empi e a malvagi.

A me pare che tutti questi modi di porsi accanto agli altri, questo farsi fratelli e sorelle miti e accoglienti dove altri vorrebbero azioni disumane per difendere la propria tranquillità, costituiscano per la città e per la società una “vittoria” di umanità e di bene assai più significativa di quella piccola vittoria armata del 1300 che motivò l’omaggio odierno rivolto a Maria.

La Vergine Assunta ci aiuti tutti, aiuti in particolare la nostra città e chi esercita in essa il servizio e la responsabilità di governo, a crescere nella fraternità, nella solidarietà, nella ricerca del vero bene. Ci apra ad una speranza attiva e condivisa.

Noi credenti fondiamo tale speranza in Dio, nel Cristo risorto che – come ci ha ricordato Paolo – è «la primizia» (1Cor 15,20) di ogni Vita vera, è la Via che ci conduce al Padre, è la Verità che illumina la nostra esistenza”.

† Gianfranco Agostino Gardin