E’ la pagina del Vangelo secondo Giovanni che narra la morte e risurrezione di Lazzaro ad essere al centro della liturgia di oggi, quinta domenica di Quaresima.
E nella celebrazione questa mattina, nella cripta della cattedrale, il vescovo Michele ha commentato le singole scene del racconto, i diversi atteggiamenti dei protagonisti, i gesti e le parole di Gesù, mettendo in luce quanto questa pagina parli alla nostra vita di uomini e di donne, alle nostre paure e angosce, in particolare in questo tempo, che ci mette tutti di fronte alla malattia e alla morte, al dolore che attanaglia famiglie e comunità intere. Ma la presenza di Gesù accanto a ciascuno e in ogni situazione umana, a piangere e a soffrire per il nostro dolore, la sua promessa di vita (“Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà”) fa gettare uno sguardo di fiducia e speranza su quel mondo giusto al quale tutti siamo chiamati a contribuire, “in cui per ogni persona vi siano le condizioni per vivere e per fiorire”, così che “troveremo con Lui e tutti insieme nuove forme di solidarietà, di aiuto reciproco, di fraternità vera”.
Il Vescovo ha evidenziato il fatto che, di fronte alla notizia della malattia dell’amico, e alla richiesta di andare da lui, Gesù “non si mette subito in movimento, non accorre ponto al capezzale dell’amico per fare qualcosa per lui. Incomprensibile Gesù. Incomprensibile amico. Incomprensibile Dio”.
E, come le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, rimproverano Gesù per non essere arrivato in tempo, per non esserci stato – ha ricordato il Vescovo -, così anche a noi, oggi, di fronte a quello che sta accadendo, di fronte agli ammalati, e a tutti quelli che non ce la fanno, viene spontaneo dire: “E tu, Signore, non ci sei. Signore, dove sei?”.
Ed ecco, l’invito del Vescovo a fermarci un momento. Un fermarsi a cui siamo costretti, certo, ma una sosta che può essere importante, per riflettere sulla nostra vita. Fermarci mentre tanti corrono.
“Devono correre le persone che provano con tutte le loro energie a salvare le vite degli ammalati – ha ricordato mons. Tomasi – e che, se non ci riescono, almeno accompagnano chi muore in modo umano e degno, non lasciando nulla di intentato. Devono correre quelli che creano le condizioni perché i primi possano lavorare bene, e senza dover necessariamente mettere a repentaglio la loro salute e la loro vita. Devono correre coloro che devono decidere quali siano le misure più adatte per frenare il contagio. Devono correre quelli che aiutano tutti a rispettare le decisioni e le regole, per quanto difficili o dure da rispettare. Devono correre quelli che debbono porre ora le condizioni affinché il grande, delicato organismo della società e dell’economia non crolli su se stesso in questa brusca fermata, e possa tornare a funzionare, quando le cose torneranno – speriamo, presto – a funzionare”.
“Io non sono tra questi – la confessione del Vescovo -. Mi sono dovuto fermare. E mi fermo a guardare Gesù, che avrebbe potuto e invece non è partito subito, che si è lasciato rimproverare dalle due amiche per il suo ritardo. E il Vangelo ancora una volta mi sfida. “Io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate” ha detto Gesù. Mi fermo qua e lo faccio anche per chi deve correre. Per un attimo, anche con chi deve correre. Questo fermarci ci avrebbe fatto bene comunque. Ci avrebbe sfidato a porci la domanda fondamentale: perché stai facendo tutto quello che fai? Per chi? Dove corre la tua vita? Verso cosa? Verso chi? Nelle sue profondità più nascoste e più misteriose, ma più autentiche e vere, che cos’è la mia, la nostra vita?”.
“Nel dialogo con Marta, abbiamo una risposta che ci sfida solamente se ci poniamo la domanda come urgente e necessaria – spiega il Vescovo -. Se invece non sentiamo il bisogno di chiedercelo, vuol dire che non ci serve davvero quella risposta. E allora ripartiremo, passando oltre. Ma se ci siamo fermati, ascoltiamo la risposta di Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Esiste la possibilità che la morte, il limite, il fallimento non abbiano l’ultima parola. Esiste la possibilità che la nostra sete di vita possa essere soddisfatta, senza bisogno di fuggire dalla nostra condizione umana – della quale fa parte anche la morte – senza dover costruire tutta una civiltà sempre in movimento frenetico per tentare di tenere a bada l’angoscia di fronte alla morte, quanto piuttosto una vera civilizzazione che ponga la persona al centro, per costruire giustizia e pace vera”.
“Se muoio, vivrò. Se vivo e credo, non morirò in eterno. Questa è la conseguenza della risurrezione di Cristo: la responsabilità che vivo verso gli altri ed il mondo, verso me stesso, le relazioni vere che accetto e che lascio crescere nella mia vita. Il bene che ricevo e che riesco a donare, che non è solo l’illusione del momento, bensì realtà fin d’ora eterna. Si espande il mio orizzonte, che non è il numero finito dei miei anni qui in terra, ma quell’eternità che già pregusto in ogni istante di vero amore”.
E Gesù, in pianto per la morte dell’amico, lo richiama alla vita, “perché quelli credessero, affinché noi crediamo. Qui c’è tutto il Vangelo – sottolinea il Vescovo -, c’è tutto l’amore di Dio che non usa bacchette magiche, ma che manda il Figlio eterno affinché nel profondo della nostra debolezza possa risplendere la luce e la forza dell’amore eterno. Possiamo vivere secondo la logica del mondo come se non si dovesse morire, oppure nella costante paura della morte – dandole troppa importanza. Vivere secondo la logica di Gesù e del Vangelo, significa vivere in funzione della risurrezione, dando il posto che loro compete alla malattia, alla sofferenza e alla morte.
Il Signore dona un orizzonte di eternità a chi è giunto al limite del proprio viaggio terreno. Ci arriveremo tutti, prima o poi, ma la novità è decisiva: la morte non è l’ultima parola! Il Signore mette un seme di eternità in ogni nostro passo”.
“Posso vivere ogni giorno come se fosse il primo in cui sono sciolto dalla paura della morte e in cui vado via libero. In questa nuova libertà potrò dare il mio contributo alla costruzione di un mondo in cui nessuno debba rinunciare alla sua dignità di Figlio amato da Dio. Un mondo giusto, in cui per ogni persona vi siano le condizioni per vivere e per fiorire, in cui non si sprechino il tempo e le risorse per combattersi, per uccidere, ma dove la vita donata da Dio possa essere sacra per tutti, indistintamente. Non limitiamoci a sopravvivere, investiamo per vivere realmente”.
“Non abbiamo paura di porre domande, come Marta e come Maria. Ma fermiamoci ad attendere la risposta di Cristo. È una risposta di speranza che si fa principio attivo di responsabilità. Non abbiamo paura di piangere come Maria. Ma fermiamoci e guardiamoci attorno, finché non scopriamo che lì con noi c’è Gesù che piange, lui che soffre per il nostro dolore, e scopriremo che proprio là c’è il Crocifisso, apparentemente sconfitto, che è il Risorto nella gloria: troveremo – la conclusione del Vescovo – con Lui e tutti insieme nuove forme di solidarietà, di aiuto reciproco, di fraternità vera”.