Uno scambio di lettere, tra la piccola, sconosciuta porzione di Chiesa formata da un gruppo di battezzati che vivono detenuti nella Casa circondariale di Santa Bona, a Treviso, e la Chiesa diocesana. Nell’anno del Giubileo della speranza è avvenuto anche questo, un piccolo segno di speranza che viaggia attraverso le sbarre, segno di un incontro fra il “dentro” e il “fuori”.
La lettera aperta che i detenuti hanno scritto alla Diocesi è stata inviata in occasione della solennità di Pentecoste, mentre la risposta del vescovo Michele Tomasi, a nome della Diocesi tutta, è arrivata nei giorni scorsi.
In questo Giubileo, il cappellano del carcere, gli altri membri della cappellania e i volontari di Comunione e liberazione e dell’associazione Prima pietra hanno proposto, ai detenuti disponibili al confronto, un’occasione di riflessione comune su cosa possa significare vivere un Giubileo dentro un carcere, e come ciascuno, a partire dalla propria condizione, possa mettersi in cammino verso una conversione possibile.
Il percorso si è sviluppato a partire da alcune domande semplici e profonde: Cosa significa per noi, oggi, metterci in ascolto dello Spirito? Qual è il “lieto annuncio” che ci è rivolto? Cosa vuol dire, davvero, essere liberi? A queste si sono aggiunte parole-chiave da meditare personalmente: libertà, opportunità, fiducia, coraggio, cambiamento. Ne è nata una lettera scritta dalla “Chiesa che vive in carcere”, alla Chiesa diocesana tutta. “Un messaggio autentico – dicono don Piero Zardo, cappellano della casa circondariale, e don Bruno Baratto, direttore di Caritas Tarvisina -, maturato nel silenzio e nella riflessione, che racconta il cammino personale di tanti uomini che desiderano ricominciare. Non chiede sconti, ma ascolto. Non pretende risposte facili, ma condivisione. È un invito a superare il pregiudizio, a riconoscere che la fede può germogliare ovunque, anche nei luoghi e nelle situazioni meno attese, quando si apre lo spazio per il cambiamento”.
I detenuti parlano della loro esperienza, senza negare le proprie colpe e “la sofferenza che anche noi abbiamo provocato”, ma, anzi, guardando al tempo speciale del Giubileo per crescere in una maggiore consapevolezza e responsabilità. Ricordano la morte di papa Francesco “che abbiamo sentito tanto vicino a noi”, e l’elezione di Leone XIV. Condividono riflessioni importanti, nella speranza di superare quei muri di indifferenza, pregiudizio e paura che possono esserci rispetto al mondo che vive “dietro le sbarre”. Sono grati per la presenza e l’impegno di operatori e volontari.
Due le figure evangeliche che i detenuti evocano: quella del centurione romano sotto la croce di Gesù, che lo riconosce come Figlio di Dio vedendo come è morto, e quella del buon ladrone che, “dopo una vita disastrosa, riceve lo sguardo misericordioso di Gesù, proprio sulla croce accanto a Lui”. Chiedono che “cresca la comunione tra noi” e si rivolgono ai fedeli della diocesi anche con la richiesta di un aiuto concreto: “Donare accoglienza e disponibilità verso coloro tra di noi che, in permesso di uscita, o terminata la detenzione, si ritrovano senza un luogo dove risiedere o con relazioni assai fragili. C’è urgenza di luoghi dove poter essere accolti, ascoltati e aiutati in un percorso di un vero reinserimento nella società. Non chiediamo di correre assieme, ma di fare un primo passo, anche lento, ma concreto. per essere insieme pellegrini di speranza”.
“Per permettere alle persone detenute di riappropriarsi gradualmente della loro vita, al di là dei reati commessi, c’è la possibilità di permessi, in giornata o per più giorni – spiegano i membri della Cappellania del carcere di Treviso -. Per beneficiarne sono necessari luoghi che li accolgano, in particolar modo per chi non ha alcun riferimento esterno al carcere. Per molti esiste lo stesso problema una volta conclusa la detenzione. L’appello è per “gesti giubilari” capaci di far emergere la disponibilità di comunità che possano rispondere a simili esigenze, mettendo a disposizione ambienti e accoglienza, animate dal desiderio di incontro e di dare possibilità a persone detenute o ex-detenute di ripartire, per un reinserimento nella società e nella comunità”.
“Sappiamo che mettersi in gioco è un rischio – concludono i detenuti nella loro lettera -, ma con umiltà vi diciamo che abbiamo bisogno di essere visti e accolti. Così da essere sostenuti anche noi nel poter accogliere noi stessi e il nostro vissuto e affidarlo al Signore, insieme. Vi sentiamo sorelle e fratelli, tutti”.
Una lettera che provoca riflessioni, che chiede di non fermarsi allo stigma di una vita reclusa e “perduta”, che invita, in modo più ampio, a rispettare la dignità di ogni persona, soprattutto in un ambiente particolare e complesso come il carcere. E pochi giorni dopo è arrivata la replica del Vescovo Michele, che esprime gratitudine per aver condiviso difficoltà, aspettative e speranze.
“Ci chiedete di riconoscere la vostra presenza nel cuore delle nostre comunità. Con il vostro appello volete aiutarci a non essere indifferenti, ad assumerci il rischio di vedervi e di ascoltarvi – scrive il Vescovo -. Non negate responsabilità e colpe, ci date una testimonianza di percorsi impegnativi e lunghi di presa di coscienza del male commesso, e di assunzione di responsabilità. Si tratta, fin dove possibile, di rimediare al male commesso, di percorrere vie esigenti di riconciliazione, di coinvolgere la comunità intera per ritessere reti di relazioni che possano permettere nuova fiducia. Ci chiedete di dare spazio concreto alla fragilità della condizione umana, di prendervi sul serio come persone, partendo dal vostro impegno a prendere sul serio le persone colpite e ferite da comportamenti sbagliati, da scelte colpevoli”.
Il Vescovo si dice grato della testimonianza che è possibile “scoprire sempre di nuovo il volto di Cristo, la bellezza della sua proposta, la verità sull’esistenza che deriva dall’ascolto senza ostacoli del suo Vangelo”, e “attingere senza merito e senza pretesa alla misericordia che scaturisce dalla Croce stessa di Cristo”.
Ricordando il ritratto della Speranza che papa Francesco ha affidato ai detenuti di Rebibbia, il vescovo spiega che quell’àncora con cui è spesso rappresentata, alla cui corda è necessario aggrapparsi, altro non è che “la Croce di Cristo, segno di apparente sconfitta, ma strumento definitivo di vittoria sul male e sulla morte. È a partire dal legno della Croce che possono dipanarsi percorsi di incontro, di ascolto, di riparazione, di riconciliazione, di speranza concreta e quotidiana”. Ecco che dalla forza della Croce nascono l’impegno di volontari e operatori, di tanti professionisti “che si impegnano in condizioni spesso difficili, a garantire giustizia e rispetto della dignità di ogni persona”. Il Vescovo ricorda anche la consolazione che nasce dalla Croce “per coloro che sono vittime di male e di violenza, perché non si sentano soli e abbandonati”, e il sostegno “per le vostre famiglie, che hanno bisogno della vostra presenza, e che scontano il peso di una lontananza spesso difficile da affrontare. È accanto alla Croce di Cristo, sulla croce del buon ladrone, che voi intuite di poter trovare le fonti della vostra speranza”.
“Cerchiamo insieme le ragioni di una speranza quotidiana e troviamo insieme la direzione in cui possano muoversi i nostri passi, per ritessere sempre di nuovo legami di comunità – aggiunge -. In occasione di alcune visite in carcere mi avete aperto il vostro cuore, e mi avete espresso i vostri bisogni, come avete fatto in questa vostra lettera. Voi percepite urgente, allora come ora, la presenza di “luoghi dove poter essere accolti, ascoltati e aiutati in un percorso di un vero reinserimento nella società”.
Nell’anno giubilare – la conclusione di mons. Tomasi – condivido con voi e con la Diocesi l’impegno a trovare spazi di questo tipo, per venire incontro in modo ordinato e sostenibile a questa necessità. Se riusciremo in questo sforzo, verrà giovamento a tutta la comunità, che vedrà nascere anche dal fallimento e dalla colpa frutti di rigenerazione. La Cappellania del carcere e la Caritas diocesana ci aiuteranno a coordinare le disponibilità che nasceranno in Diocesi. Sarà, credo, un contributo a diffondere quella pace di Cristo che parte cambiando i cuori e giunge fino a mutare le strutture della nostra vita associata. Sarà un passo importante, frutto della “pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente”. Questo è stato l’augurio di Papa Leone XIV il giorno della sua elezione, questo sia per noi un frutto della grazia del Giubileo della speranza, questo sia un passo da percorrere insieme, nella luce del Risorto”.
Uno scambio importante, che può aiutare ad abbattere muri e barriere tra “dentro e “fuori”. Una finestra che da quattro anni, in diocesi, si cerca di tenere aperta anche grazie a una rubrica, “Condannati a vivere”, curata insieme dal settimanale diocesano, “La Vita del popolo”, dalla Cappellania del carcere e dalla Caritas, che racconta la vita e i progetti all’interno sia della Casa circondariale che dell’Istituto penale minorile.
In allegato la Lettera dei detenuti alla Diocesi
A questo link la Lettera di risposta del Vescovo