Lontano sulla collina, in mezzo ad un piccolo gruppo di povere case, alcuni uomini stanno fissando il cielo, il gregge che custodiscono riposa tranquillo, non ha percepito nulla di strano, mentre il cane pastore è allertato, il suo istinto l’ha avvertito e punta, deciso, il luogo da cui sta giungendo l’angelo per portare il lieto annuncio del Natale. E’ l’immagine del quadro della Natività nella parrocchia di San Michele di Piave, fino ad aprile esposta nel museo diocesano nella mostra dedicata a “Il primo El Greco e l’icona veneto cretese”. Accanto al messaggero celeste un gruppo di altri tre angeli reggono un cartiglio ormai muto, ma che facilmente intuiamo potesse raccogliere l’inno natalizio del “Gloria”. Più che volare sembrano quasi danzare, la loro armonia e il loro numero sono probabilmente un richiamo al mistero trinitario di Dio. Sotto di loro la vicenda si svolge in uno strano edificio composto in parte da antichi resti, solenni ma ormai in rovina, sui quali si innesta una semplice capanna di legno, con il tetto in paglia. E’ finita un’epoca, quella del mondo antico, con Cristo ne sta nascendo una nuova la quale troverà non più nella potenza e nella forza ma nella povertà, nella semplicità e nell’umiltà i suoi nuovi, sorprendenti, punti di forza. Leggendo l’immagine da sinistra, seguendo il verso della scrittura, l’asino e il bue sono i primi protagonisti a farci entrare nella scena, sappiamo bene che non sono citati nei testi evangelici, ma la loro è una presenza L immancabile in ogni nostro presepe da quando i padri della chiesa, riprendendo un versetto del profeta Isaia (Is 1,3), li hanno interpretati come simbolo l’uno del popolo ebraico (il bue) e l’altro dei pagani (l’asino), chiamati entrambi a riconoscere il loro Signore. La figura vigile di Giuseppe appare quasi allontanata dal centro della scena, per sottolineare che è un altro il vero Padre del bambino, ma la postura pronta e lo sguardo attento ce lo mostrano come solerte custode della santa famiglia, accanto a lui, Maria inginocchiata, incrocia le braccia al petto in segno di adorazione. A noi questo può apparire un atteggiamento troppo distaccato da parte di una madre nei confronto del proprio figlio, ma la pittura ci mostra così colei che nel frutto del suo grembo contempla anche il suo stesso creatore. Il pittore rinuncia al simbolismo suggerito dai vangeli, che parlano di un bambino avvolto in fasce, e lo dipinge completamente nudo per ricordarci la vera umanità di Gesù, Dio che si è fatto uomo accettando di essere anche bambino. Gli fanno da culla dei covoni di paglia, dorme sui resti del grano Lui che nato a Betlemme, la “casa del pane” (questo il significato del nome Betlemme), si donerà come pane per l’umanità, e la cui vita sarà seme che muore per produrre molto frutto. Il corteo dei pastori giunge da destra con i loro doni, essi che facevano parte degli ultimi nella società del tempo, sono i primi a vivere l’incontro con il Signore, segno di quella logica “rovesciata” del Regno espressa dalle beatitudini. Vestiti poveramente, i loro gesti esprimono stupore, riverenza e adorazione, portano con sé semplici doni da offrire a Gesù, in modo particolare davanti al bambino un pastore depone un agnello, legato e già pronto per il sacrificio, ci invita così a riconoscere in quel bambino l’agnello che toglie il peccato del mondo, segno pasquale che lega il mistero dell’incarnazione a quello della redenzione. Chiude la scena, il tronco tagliato di un albero da cui fiorisce un nuovo germoglio, richiamo alla profezia di Isaia sul virgulto che nascerà dal Tronco di Iesse: in questo mondo ormai morto rinasce la speranza. E’ merito del prof. Eugenio Manzato l’aver riconosciuto in questa tavola un’opera giovanile dell’artista di Candia che, lasciati gli schemi tipici del suo ambiente di provenienza, comincia a guardare alla pittura veneta e vi attinge a piene mani un nuovo linguaggio pittorico e simbolico. Il tempo ha lasciato i suoi segni su quest’opera in modo particolare lo smaltino con cui era dipinto l’azzurro del cielo è diventato trasparente dandocene così una percezione molto diversa da come doveva essere appena uscita dalle mani dell’artista, resta però una eccezionale testimonianza di quel percorso artistico di metamorfosi del genio di El Greco ed insieme, quasi una sorta di finestra attraverso la quale immergersi nel mistero del Natale.
don Luca Vialetto direttore del Museo diocesano