Per una Chiesa in cammino: ascolto e sinodalità

Mercoledì 21 e venerdì 23 febbraio le prime due veglie vicariali di consegna della Lettera pastorale sul Cammino Sinodale ha voluto presiederle lui. Mons. Gardin desidera, infatti, con questo gesto, affidare a tutta la diocesi, a ciascun sacerdote, religioso, religiosa, ai laici impegnati nella pastorale, il frutto di oltre un anno di lavoro, incontrando le persone nelle diverse comunità. Gli abbiamo rivolto alcune domande per approfondire il contenuto della Lettera e per conoscere una sua prima valutazione di questo percorso.

Che bilancio sente di poter fare del Cammino Sinodale e che valore ritiene che avrà per il futuro della nostra diocesi?

Il Cammino Sinodale, dal mio punto di vista, è stato solo l’inizio di un percorso, un ampio momento di discernimento, in cui si è cercato soprattutto di metterci in ascolto di ciò che “lo Spirito chiede alla nostra Chiesa”, per evocare un’espressione ripetuta nel libro dell’Apocalisse. “Fare un bilancio” mi sembra quasi un’operazione di tipo “aziendale” che mal si addice all’impegno di una Chiesa chiamata sempre a riconoscere che il protagonista è lo Spirito. È vero che ci siamo guardati attorno, ci siamo anche detti che cosa fare, abbiamo formulato delle “scelte”, ma sono dei tentativi, forse timidi, di alimentare una volontà di riforma, o di conversione continua, che deve appartenere ad ogni stagione della Chiesa se non vuole tradire la sua missione e svuotare il Vangelo della sua forza. Devo dire però che ho sentito dichiarare da varie persone che hanno partecipato a questo evento, come membri dell’Assemblea Sinodale diocesana, che hanno vissuto un’esperienza ecclesiale positiva e si sono sentiti coinvolti. Certo, si deve dire realisticamente che sono solo una piccola parte del grande numero dei battezzati che appartengono a questa diocesi; ma noi abbiamo cercato di seminare: non viviamo l’ansia di raccogliere subito dei frutti.

Con questa Lettera il Cammino Sinodale entra nella “fase due”, che è stata definita come un “avvio di processi”: può spiegare che cosa significa questa espressione?

La conclusione che si può ricavare, in una battuta, dal Cammino Sinodale è che dobbiamo continuare a camminare. Per questo la Lettera pastorale è intitolata Per una Chiesa in cammino. Un camminare che non pretende di svolgersi secondo programmi (ecclesiali o pastorali) assolutamente precisi, subito definiti in ogni dettaglio. Qualche volta sento esprimere questa esigenza, per certi aspetti comprensibile; ma non basta qualche iniziativa nuova o qualche revisione delle attività pastorali consuete, per andare verso un nuovo modello di Chiesa, o verso una Chiesa più missionaria, come ci chiede Francesco. Il Papa ci ha invitati, nel suo intervento al Convegno ecclesiale di Firenze, a non mettere tutta la nostra fiducia «nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte». L’epoca di grandi cambiamenti che stiamo vivendo deve farci sentire come Abramo che si lascia condurre dal Signore verso una terra che ancora non conosce. Per questo l’«avvio di processi» (è anche questa un’indicazione di papa Francesco) dice che vogliamo iniziare da alcune piccole iniziative o riforme, che ci aprano però a cambiamenti più profondi, a conversioni di mentalità e di stile, che giungano a modificare in senso decisamente più evangelico la nostra vita e il volto della nostra Chiesa. Disponibili sempre a verificare, ed eventualmente a correggere, a perfezionare.

La “scelta – chiave” che sosterrà tutte le altre è la valorizzazione degli organismi di partecipazione, a partire dal Consiglio pastorale parrocchiale: non è una scelta “rischiosa”, dato che sono visti un po’ come delle realtà “spente”, poco vivaci?

Sì, è una scelta rischiosa, che potrebbe anche fallire. Sono molti, infatti, quelli che giudicano un’esperienza non riuscita quella voluta dal Concilio di introdurre nella Chiesa i cosiddetti “organismi di partecipazione”, quali sono appunto i Consigli pastorali. Siamo realisti e dunque siamo convinti che non si tratta di un impegno semplice. Infatti nella Lettera pastorale si parla della «sfida dei Consigli pastorali come palestre di sinodalità e ‘motori’ del cambiamento». Ma abbiamo ritenuto che valga la pena tentare. La ragione sta anche nel fatto che l’esperienza del Cammino Sinodale ci ha convinto che la “sinodalità” deve caratterizzare sempre più lo stile della Chiesa. I Consigli pastorali sono i luoghi di sinodalità più “a portata di mano”. Perché dunque non tentare di rivitalizzarli, di rivedere la loro identità e funzione, rendendoli i primi promotori del rinnovamento delle nostre comunità? In Evangelii gaudium papa Francesco ci mette in guardia da “pessimismo sterile” che soffoca l’audacia e induce a “sotterrare i talenti”.

La scelta di lasciare che siano le singole Collaborazioni Pastorali a decidere quali processi avviare per primi è un segnale di fiducia e di responsabilizzazione. Non teme, però, uno “sfilacciamento” del cammino unitario della Diocesi?

Abbiamo molto riflettuto nella Commissione Sinodale se l’attuazione delle “scelte” indicate dal Cammino Sinodale dovesse essere uniforme per tutta la diocesi o meno. Abbiamo voluto privilegiare la responsabilità e il discernimento di ogni Collaborazione Pastorale. Ci sembra un atto di fiducia in quanti saranno chiamati a dare attuazione concreta alle scelte e anche un’attenzione alla diversità delle situazioni locali. La diocesi è popolosa ed è un insieme di comunità eterogenee, con caratteristiche diverse. Non vogliamo comunità rigidamente standardizzate su un unico modello, ma protagoniste e capaci di riconoscere sia le proprie fragilità sia le proprie potenzialità. Toccherà poi a chi segue il cammino diocesano dal centro promuovere un’armonia delle diversità. Nella Lettera si legge: «L’unità non sarà data dal fare tutti la stessa cosa nello stesso momento, ma dal perseguire tutti alcuni grandi obiettivi, raggiungibili anche attraverso percorsi in certa misura diversi e interpretati da soggetti diversi».

Il nuovo stile di Chiesa tratteggiato nella Lettera vorrebbe introdurre un modo nuovo di camminare insieme come comunità cristiane, nella diversità dei doni e delle vocazioni. Quali sono le potenzialità e le resistenze in questo cambiamento?

Credo che il Cammino Sinodale abbia incrementato ulteriormente un “camminare insieme” che trova già un’esperienza diffusa in diocesi attraverso l’introduzione delle Collaborazioni Pastorali, presenti ormai nei quattro quinti delle parrocchie. Il camminare insieme non dice una condivisione generica; dice la disponibilità a dialogare, riflettere, discernere tra “categorie” diverse, e cioè i diversi “stati di vita” (presbiteri, diaconi permanenti, consacrati, laici), ma anche persone con esperienze di fede, sensibilità, attenzioni diverse. La maturità cristiana di tanti laici, la loro responsabilità, la loro esperienza, la sapienza che nasce dalla loro vita, meritano di essere maggiormente riconosciute e messe a disposizione di tutti; probabilmente questo vale anche per l’esperienza specifica delle persone consacrate, talora percepite solo come possibile “manovalanza pastorale”. Credo che, in tutto ciò, le resistenze non manchino: vanno rispettate e comprese, perché ogni cambiamento comporta delle fatiche.

Come ha vissuto, da pastore, questa esperienza?

Non nascondo che è stata laboriosa. Ho cercato di riflettere e di pregare, e ho lavorato assieme a collaboratori convinti e sapienti. Ripeto spesso che l’esperienza dell’assiduo lavoro nella Commissione Sinodale è stata quella di un prezioso “piccolo sinodo nel sinodo”. Credo che i passi che stiamo cercando di compiere ce li chieda il Signore; naturalmente pronto a rivedere le mie posizioni, o forse a risvegliarmi dai i miei “sogni”, con l’aiuto di questa Chiesa trevigiana che sento di amare e dalla quale in tante occasioni sono edificato e sospinto all’impegno.

La Visita pastorale ha restituito una Chiesa “nel guado” fra tradizione e tentativi di rinnovamento. Come immagina la Chiesa di Treviso del futuro? Su quale punto vorrebbe che si concentrassero di più gli sforzi da parte delle nostre comunità cristiane?

Non amo molto l’immagine del “guado” attribuita alla Chiesa, se questo vuol significare che siamo come chi si trova lontano dalle rive, insicuro, magari timoroso di affogare. Amo invece l’espressione che usa il Concilio, citando Sant’Agostino: «La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga». La vera “altra riva”, il luogo dell’approdo, non è un nuovo assetto, nuove strutture, l’assunzione di nuove strategie pastorali: è l’incontro con il Veniente. Anche la nostra Chiesa vive il suo pellegrinaggio nel tempo con speranza e affrontando i vari passaggi con fiducia. Convinta che ogni passaggio, e anche ogni difficoltà, è un’occasione per crescere nella fedeltà al Signore e al Vangelo. È difficile dire come saremo nel futuro. Probabilmente saremo meno numerosi (ma chi può fare il computo dei discepoli di Gesù?), forse anche meno sospinti dalla tradizione ma più mossi dalla convinzione, più preoccupati della nostra coerenza cristiana che del nostro affermarci nella storia. Credo che ogni vero rinnovamento delle comunità cristiane nasca da un riconoscimento più intenso della centralità di Gesù nella nostra vita personale e comunitaria. Il cristianesimo è un poliedro dalle molte facce e le forme che la Chiesa può assumere nel tempo sono diverse, ma tutto proviene sempre da Gesù Cristo e deve condurre sempre a Gesù Cristo. (Alessandra Cecchin)

(Intervista uscita sulla Vita del popolo del 25 febbraio 2018)