Carissimi fratelli e sorelle, il Natale «interpella e scuote, perché è, allo stesso tempo, un mistero di speranza e di tristezza». Mi colpirono, nell’omelia della notte di Natale di due anni fa, queste parole di papa Francesco. Ma perché il Natale dovrebbe, come diceva il papa, «portare con sé un sapore di tristezza»? Perché, risponde Francesco, ci mostra che «l’amore non è accolto, la vita viene scartata». Infatti «così accadde a Giuseppe e Maria – osserva ancora il Papa – che trovarono le porte chiuse e posero Gesù in una mangiatoia, “perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Luca 2,7)». Dense, e drammatiche, sono anche le espressioni dell’evangelista Giovanni, riferite alla venuta del Figlio di Dio nel mondo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (1,11); e ancora: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce» (3,19).
Mi sono detto: il Papa ha ragione. Come può il Natale non essere segnato almeno da una venatura di amarezza, constatando l’indifferenza di molti (cristiani!) nei confronti di questo inatteso e sorprendete entrare di Dio nella storia e fin negli angoli più oscuri e tragici delle vicende umane?
Ma nella freddezza manifestata di fronte al dono che è Gesù e al suo amore noi ritroviamo anche il mancato riconoscimento di tanto, tantissimo amore profuso da una moltitudine di persone, l’incapacità di scorgere il dono di sé che molti sanno praticare nella loro vita. Ci tocca constatare che le parole e i gesti dell’amore risultano incomprensibili per chi conosce solo la grammatica dell’egoismo (chi pensa soltanto a sé non capisce proprio il donarsi agli altri: è fuori dai suoi schemi mentali). E così vediamo i molti rifiuti – compresi i nostri, intendiamoci – nei confronti dell’altro che chiede solo un aiuto per sopravvivere, o qualche piccolo passo verso la sua solitudine, o un minimo di riconoscimento alla sua dignità calpestata, o uno sguardo di compassione per il suo essere schiacciato dalle colossali ingiustizie che solcano come ferite profonde la carne dell’umanità.
La piccola storia della nascita di Gesù ci rimanda inevitabilmente alla distanza smisurata che separa i privilegiati dagli scartati. E ci chiediamo: quando accadrà che la compassione farà breccia nel cuore di chi, anche se non lo dichiara a parole, proclama con i fatti: la tua miseria non deve disturbare il mio non voler mancare di nulla? E senza che attorno a lui si dica: non sarà mica diventato un “buonista”! Ma se un leggero velo di tristezza provocato da questa sconcertante fatica di accogliere l’amore avvolge il nostro Natale, questo significa che il nostro Natale non è né cieco, né ingenuo, né falso.
E tuttavia, diceva ancora papa Francesco in quella omelia, il Natale è anche «mistero di speranza». Anzi, «il Natale ha soprattutto un sapore di speranza perché, nonostante le nostre tenebre, la luce di Dio risplende. La sua luce gentile non fa paura; Dio, innamorato di noi, ci attira con la sua tenerezza, nascendo povero e fragile in mezzo a noi, come uno di noi. Non viene a divorare e a comandare, ma a nutrire e servire. Così c’è un filo diretto che collega la mangiatoia e la croce, dove Gesù sarà pane spezzato: è il filo diretto dell’amore che si dona e ci salva, che dà luce alla nostra vita, pace ai nostri cuori».
Noi crediamo in quella formidabile e decisiva forza di amore che è entrata nel mondo con il Figlio di Dio, il quale, come egli stesso ha detto di sé, «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Matteo 20,28). Non si è presentato tra noi accompagnato da cortei e marce trionfali, non con una scenografia da imperatore che celebra la vittoria sui nemici, ma nella persona del povero, fragile, emarginato bambino di Betlemme. All’inizio della sua vita – come ricorda il Papa – una mangiatoia, alla fine una croce.
Ma dentro la storia di Gesù, svoltasi ai margini dell’impero e ignota ai grandi del tempo, un amore senza limiti si riversa sull’umanità. In quella storia trovano senso e si caricano di significato anche le mille e mille vicende di amore, gli innumerevoli gesti di bontà, accoglienza, perdono, prossimità, tenerezza, che sono il fiume, sovente carsico, che rende viva e pulsante e feconda l’umanità che cammina lungo i secoli. Il velo di “tristezza natalizia” sopra evocato non oscura né dissolve la grande speranza che la venuta tra noi del Figlio di Dio suscita in chi la guarda da vicino, nella sua essenziale semplicità che è, nello stesso tempo, la sua incantevole grandezza.
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce», sono le prime parole della Scrittura – è il profeta Isaia – che risuonano nella Messa della notte a Natale. Forse chi cammina nell’oscurità di un’esistenza gravata da aspre sofferenze, da delusioni che colpiscono come percosse, da amarezze che schiacciano il cuore, capisce meglio di altri le parole di Isaia. Il Natale dovrebbe essere soprattutto festa di quelli che il mondo considera ultimi. Gente che non innalza palazzi, ma pianta la propria tenda povera o lacerata in campi desolati ai margini della città opulenta e festante. Il Natale ci fa desiderare intensamente che in loro ci sia più speranza; e questo anche grazie al nostro uscire dalla città illuminata e pulita per entrare nel loro campo buio e fangoso. Il nostro amore, alla scuola del bambino della mangiatoia e dell’uomo della croce, alimenti la loro fiducia in Dio, negli altri, nella vita. Fare il Natale cristiano è soprattutto questo.
A tutti il mio augurio sincero e affettuoso. La luce che è Cristo illumini la strada di noi tutti, e doni sapore al nostro credere e al nostro volerci bene. Auguri di cuore!
† Gianfranco Agostino Gardin
vescovo di Treviso